di Maurizio Musolino

Le manifestazioni che nei giorni scorsi riempivano le strade di Beirut per contestare nazioni europee ree di aver permesso la pubblicazione di vignette blasfeme nei confronti del Profeta e di Allah erano, ad uno sguardo distratto, ben diverse da quelle che appena un anno fa si svolgevano nella stessa capitale del Paese dei Cedri. Diverse sì, ma in un certo senso frutto proprio di quei giorni. Proviamo ad analizzare cosa possano avere in comune quei volti sorridenti di ragazzi e ragazze - tutti bellissimi e copiosamente offerti dai media - con i volti arrabbiati dei militanti islamici che hanno protestato in questi giorni sotto le ambasciate dei Paesi scandinavi.
Innanzitutto la relativa spontaneità. I protagonisti della "rivoluzione dei Cedri" non erano certo spinti da spontaneismo, bensì da precise indicazioni e da un coinvolgimento, anche finanziario, di due potenze come la Francia e gli Stati Uniti, desiderose di riacquistare una influenza sul Paese solo momentaneamente lasciata alla Siria. In quei giorni si è giocata una partita durissima non solo verso il "vicino" siriano, ad essere in gioco erano i rapporti di forza fra le varie componenti della società libanese. L'iniziale alleanza "anti Damasco" fra la maggior parte del mondo maronita, i sunniti di Hariri e i drusi di Jumblat, è andata disgregandosi man mano che i drusi e i sunniti hanno iniziato a cercare un dialogo con le formazioni sciite, prima fra tutte Hezbollah. Rinviando ad un futuro non certo vicino l'adempimento della parte della risoluzione 1559 che chiedeva la smilitarizzazione delle milizie armate: ovvero la fine del dominio di Hezbollah sul sud del Paese.

Dopo l'uscita dei siriani, alcuni settori maroniti, i più legati alla Francia, hanno visto con sospetto questi contatti, in parte portando indietro la memoria agli anni drammatici della guerra civile, ma soprattutto perché rischiavano di vanificare i progetti francesi e statunitensi di egemonia sul Paese. In questa chiave si deve leggere il coinvolgimento per la prima volta di esponenti Hezbollah nel governo libanese. Un tentativo di includere il partito guidato dallo sheik Nasrallah nel governo, dando assicurazioni ad entrambi i fronti. E fino a dicembre, nonostante il tentativo di destabilizzazione portato avanti con "puntuali" esplosioni di autobomba, sembrava poter prevalere la strada del dialogo.

La consapevolezza che l'ipotesi di dialogo venisse superata in funzione di una nuova offensiva di contrapposizione si è avuta invece negli ultimi mesi dell'anno passato, quando gli Stati Uniti hanno iniziato l'offensiva contro l'Iran. In questo nuovo contesto, con un Iraq ancora lontano dalla pacificazione, diventava difficile tollerare Hezbollah direttamente coinvolto nel governo del Libano. Da qui una serie di pressioni interne e internazionali, tendenti a spezzare la coalizione di "unità nazionale" che guidava il Paese. Il primo risultato fu l'autosospensione dei ministri del Partito di Dio nel dicembre scorso. Si apriva così di nuovo il fronte interno.

Del resto l'equilibrio politico libanese è da sempre precario, visto che nonostante gli accordi di Teaf dei primi anni Novanta (che hanno avuto il merito di aver fatto terminare la guerra civile assegnando un ruolo di cuscinetto all'esercito siriano) detto equilibrio si basa su un processo post coloniale imposto dalla Francia negli anni 30/40. Da allora molte cose sono cambiate, prima fra tutte la composizione demografica. A subire questa antica impostazione sono da sempre gli sciiti, maggioranza numerica nel Paese ma relegati a posizioni di comprimari nella geografia istituzionale, che assegna la carica di Presidente della Repubblica ad un maronita, quella di Primo Ministro ad un sunnita e solo la carica di presidente del Parlamento ad uno sciita.

Da queste considerazioni alle manifestazioni di questi giorni il passo è breve. I cortei islamici contro le vignette blasfeme non parlavano solo al mondo occidentale, bensì soprattutto all'interno. Erano prove di forza verso quanti pensano di poter mettere il mondo sciita di nuovo alle porte del potere libanese. L'ennesima dimostrazione che, nonostante dieci anni di pace e soprattutto di "affari", il rischio di riprecipitare nella guerra civile è tutt'altro che scongiurato. Hezbollah ha chiaramente indicato in questa occasione di riuscire a governare i movimenti sciiti, dimostrando di poter bloccare le proteste ma anche di poterle fomentare. Un monito che nelle prossime settimane farà sentire i suoi effetti nella pericolosa partita interna libanese.

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