di Camilla Modica

Servono centoventisei milioni di dollari per provare a salvare il Mar d’Aral, o almeno quel poco che ne rimane. Sono stati sufficienti pochi decenni per ridurre di tre quarti il volume di quello che una volta era il quarto mare chiuso più grande del mondo. Pochi decenni, dagli anni Sessanta ad oggi, per distruggere quasi totalmente il prezioso ecosistema di questa zona a cavallo tra Kazakhstan e Uzbekistan, un tempo fertile e ricca d’acqua grazie a due tra i più importanti fiumi dell’Asia Centrale, l’Amu Darya e il Syr Darya. Di anno in anno il livello del Mar d’Aral è sceso in modo costante. Gli scienziati prevedono che senza interventi importanti l’intero mare si prosciugherà totalmente entro il 2020. Già adesso i danni sono enormi, non solo per flora e fauna ma anche per la popolazione che vive sulle coste e che sempre più spesso è costretta a spostarsi altrove. Da un lato, infatti, in queste terre pesca e agricoltura sono in ginocchio, mentre dall’altro, è difficile superare i 50 anni di vita, a causa della forte incidenza di alcune malattie come bronchiti, anemie, allergie. La crisi idrica di questa regione risale agli anni Sessanta quando dallo Stato Sovietico, che allora la controllava, arrivarono i bulldozer deputati a estirpare tutti i frutteti per lasciar spazio solo alla coltivazione del cotone. La mole d’acqua necessaria per far questo venne drenata dall’Amu Darya e dal Syr Darya. Furono proprio i migliaia di canali d’irrigazione costruiti senza sosta a decretare la morte dei due fiumi. Inoltre, l’acqua drenata contribuì a far sciogliere ed evaporare il sale terrestre che si trova nel sottosuolo di queste zone. Da qui l’inizio del diffondersi di alcune malattie. Nel corso degli ultimi 15 anni le bronchiti croniche sono aumentate del 3mila per cento, le artriti del 6mila. Oggi, soprattutto nel sud, il 99 per cento delle donne soffre di anemia, così come l’87 per cento dei bambini. Senza contare l’alta mortalità infantile. Inoltre, crebbe il problema della disoccupazione. La coltivazione del cotone è stagionale, dura tre mesi l’anno e basta. Precedentemente la popolazione si dedicava anche a frutteti, pastorizia. Tutto scomparso a favore di una crescente povertà, anche perché il 90 per cento del cotone prodotto veniva lavorato a Mosca.

Contro questa situazione nel corso degli anni si sono cercate, pensate le soluzioni più disparate, come racconta Ryszard Kapuscinski in uno dei suoi libri più famosi, . Dal ridare vigore al corso dei due fiumi facendo saltare i ghiacciai dell’Himalaya, al deviare parte delle acque di alcuni fiumi siberiani. Alla fine, ha però prevalso il progetto del governo kazako di provare a salvare solo la piccola parte nord del Mar d’Aral, costruendo due dighe che la isolino dalla parte sud, ben più ampia e per metà interna all’Uzbekistan. I finanziamenti per tutto questo arrivano in gran parte dalla Banca mondiale. Dopo un primo prestito di 68 milioni di dollari, negli scorsi giorni l’agenzia delle Nazioni Unite ha approvato un ulteriore prestito di 126 milioni a favore del Kazakhstan.

Alle spalle di scelte che dovrebbero essere solo scientifiche e ambientali, c’è però lo scontro tra Uzbekistan e Kazakhstan per il controllo di quel che resta del mare a cavallo tra i propri confini. Per capirlo basta aprire una cartina. Il Mar d’Aral, si diceva, è alimentato da due fiumi: a nord, cioè dalla parte del Kazakhstan, c’è il Syr Darya, a sud, nell’ Uzbekistan, scorre invece l’Amu Darya. La maggior parte dell’acqua di questi due fiumi si perde tra i tantissimi canali d’irrigazione, soprattutto a causa dell’evaporazione. L’Amu Darya, in realtà, non sfocia neanche più. Di conseguenza, l’unico fiume rimasto ad alimentare il Mar d’Aral è il Syr. Il governo kazako ha così deciso di costruire delle dighe che permettano al modesto flusso del Syr di concentrarsi su un’aria più ridotta e tutta interna ai suoi confini. Già con la costruzione della prima - lunga 13 chilometri - i risultati sembrano essere stati subito buoni, con un innalzamento del livello dell’acqua da 3 a 42 metri. La speranza è che, una volta conclusa la costruzione della seconda diga e chiusi altri canali d’irrigazione, il mare possa tornare a bagnare la cittadina di Aralsk entro il 2010.

Se così fosse, certo si potrebbe riuscire a salvare almeno una parte di habitat, ma il pericolo concreto è lo scoppio di una guerra tra Uzbekistan e Kazakhstan. Una delle tante guerre che, a leggere gli innumerevoli e preoccupanti rapporti sullo stato del Pianeta, potrebbero scoppiare nei prossimi anni per il controllo delle risorse naturali, acqua in primis. E poi non bisogna dimenticare che la popolazione uzbeka si trova nelle stesse identiche condizioni di quella kazaka: sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari e gli altissimi tassi di salinità nell’aria causano cancro, danni irreversibili a reni e fegato. E anche in Uzbekistan c’è una città che può solo ricordare quando era bagnata dalle acqua del Mar d’Aral: Mujnak. Ormai le vecchie barche sono accasciate sul deserto.

Quello che è mancato è un piano di collaborazione tra i due Stati per cercare di salvare una porzione maggiore di questo mare. Il governo uzbeko, infatti, non si è mosso abbastanza per cercare di rodare forza all’Amu Darya. Secondo quanto ha scritto recentemente Andrew Osborn sull’, dietro questa riluttanza ci sarebbe la volontà di sfruttare al massimo le risorse di petrolio e metano che si trovano sotto il fondo ormai prosciugato del Mar d’Aral.
Come se tutto il petrolio del mondo potesse sostituire il bene più prezioso della Terra: l’acqua.

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