Arrivano i falchi del business mondiale e per l’Iraq – già distrutto - sarà una nuova guerra. L’annuncio, non tanto velato, viene da Sharm el Sheik, dove si sono dati appuntamento per una conferenza internazionale, dedicata appunto all'Iraq, 60 fra Paesi e istituzioni internazionali. Tutti uniti per dire al mondo che “il punto di partenza per risolvere i vari problemi dell'Iraq è il raggiungimento della riconciliazione nazionale, perché non si può avere ricostruzione senza sicurezza e non vi è sicurezza senza il consenso nazionale”. La morale di questo discorso è, invece, ben altra. Il disegno generale consiste nell’organizzare, già da questo momento, un nuovo piano d’attacco nei confronti del disastrato paese. Da un lato si continueranno le azioni militari di distruzione e, dall’altro, si avvieranno le premesse per favorire la ricostruzione… Tradotto in termini concreti vorrà dire che mentre le truppe radono al suolo villaggi, cittadine, case e strutture avanzeranno i soccorsi tecnici ed economici. Comincerà la ricostruzione che poi sarà nuovamente calpestata. Questo, in sintesi, il piano - non confessato - che esce dal vertice di Sharm el Sheik. Ovviamente le tesi a favore di questa nuova iniziativa vengono appoggiate dall’attuale governo di Baghdad che parla, in chiave propagandistica, di ricostruzione, per fare dell’Iraq un paese “moderno, democratico e federale”. E così, se al tavolo dell’incontro tutto sembra filare liscio, sul tema dell’impegno politico-diplomatico si registra invece una corsa per accaparrarsi il futuro bottino delle opere di ricostruzione. La sfera economica, quindi, prende il sopravvento e si rivelano i piani dei mercati finanziari. Anche l’Italia – che è già in Iraq – si mette in lista d’attesa per i grandi affari.
C’è un programma che si chiama “Ricostruzione-Iraq” che raggruppa aziende interessate ai lavori di ricostruzione ed in particolare società fornitrici di beni/servizi nel settore delle costruzioni in diretto rapporto con quei General Contractor statunitensi che sono, al momento, gli assegnatari degli appalti. Comincia così la globalizzazione dei grandi affaristi. Tutto sembra ok se si guarda il paese a volo d’uccello. Ma la realtà è ben diversa, perché sotto il rullo compressore restano schiacciati molti programmi pur sempre carichi di belle parole. Tanto che c’è chi si chiede dove siano finiti quei miliardi di dollari che erano stati stanziati per “migliorare” le infrastrutture del paese. In effetti, a quattro anni dall'invasione, dopo circa 21 miliardi di dollari Usa per la ricostruzione (e nonostante le promesse di Bush relative al fatto che avrebbe lasciato l'Iraq con infrastrutture migliori) il Paese adesso produce meno elettricità e petrolio di prima che i missili iniziassero a colpire Baghdad.
La realtà è che sulla situazione irachena si sta realizzando uno dei più grandi “affari” della storia. E’ anche vero, comunque, che al momento non ci sono bilanci chiari e documentati. E’ difficile, infatti, svolgere indagini e tenere d’occhio libri paga e transazioni. Non valgono, al momento, le analisi di mercato e le operazioni di pianificazione. I fondi internazionali arrivano a pioggia, così come a pioggia cadono le bombe americane. Con i soldati a stelle e strisce che demoliscono e i Contractor che riparano… Tutto avviene nel quadro di una pianificazione fatalmente difettosa, che resta completamente sopraffatta dal collasso della situazione della sicurezza interna. Si registrano così scandali che hanno dimensioni ciclopiche e che nascono nelle stanze di grosse holding e che trovano, poi, una concreta applicazione nella Green Zone della capitale irachena. E non è così un segreto se nell’immediato periodo del dopo-Saddam ci sono stati scandali in abbondanza.
Le ostilità erano, infatti, appena iniziate, quando si apprese che i contratti per ricostruire le infrastrutture erano assegnati senza gare a società come la “Bechtel” e la “Kellogg Brown and Root”, una controllata della “Halliburton”, che avevano entrambe stretti legami con l'amministrazione Bush. Chiaro? E tutto questo fa dire a Rosemary Hollis, ricercatrice capo al “Royal Institute of International Affaire” che “é scandaloso che quel poco di infrastrutture che esistevano prima della guerra non siano state salvate, e che la ricostruzione sia stata pianificata così male”. Il vero scandalo consiste anche nel fatto che il risultato finale dei soldi che, ad oggi, sono stati spesi per la ricostruzione, è solo una frazione di quello che gli iracheni avevano il diritto di aspettarsi. E ancora: la maggior parte dei 21 miliardi di dollari autorizzati dal Congresso americano nel 2003 sono già esauriti all’80 per cento. Senza che i risultati si siano visti…
I dati delle organizzazioni umanitarie internazionali sono chiari pur se, ovviamente, approssimativi. In base ai piani originari, i settori relativi all'elettricità, alla modernizzazione delle centrali, alla trasmissione e alla distribuzione avrebbero dovuto aggiudicarsi la fetta maggiore dei fondi per la ricostruzione: 5,56 miliardi di dollari. Sono stati, invece, ridotti a 4,24 miliardi. Anche i progetti nel settore del petrolio e del gas sono stati ridotti da 1,89 miliardi di dollari a 1,72. E quelli nel settore dei trasporti da 870 milioni di dollari a 800 milioni.
Quelli che hanno subito la perdita maggiore sono stati i progetti per la fornitura di acqua potabile e il miglioramento dei sistemi fognari – quasi metà dei 4,33 miliardi di dollari stanziati. I fondi perduti sono stati riassegnati per la maggior parte alla sicurezza, che ha visto il suo budget aumentare da 4,56 miliardi di dollari a 6,31 miliardi. La sanità è aumentata da 793 milioni di dollari a 820 milioni. Completate le riassegnazioni, la sicurezza si è presa il 34 per cento dei fondi, mentre l'elettricità è restata sotto di un quarto, l'acqua del 12 per cento e il petrolio del 9 per cento. Nel conto generale, comunque, va anche messo il sabotaggio delle infrastrutture attuato da quelle forze irachene che si oppongono agli americani cercando, appunto, di sabotare le loro basi.
Intanto autorevoli membri del Congresso Usa, che seguono il processo di assegnazione dei contratti e quello della ricostruzione, lanciano l’allarme: “Stiamo spendendo – dicono - un sacco di soldi in Iraq con ben pochi risultati da mostrare”. I problemi sono enormi e il mondo degli affari ne approfitta ampiamente. La stampa di Baghdad riferisce che un importante appaltatore britannico (che ha avuto centinaia di dipendenti Iraq che lavoravano ai programmi infrastrutturali finanziati dagli Usa e che dava lavoro a migliaia di subappaltatori iracheni) ha dichiarato: “Se si guarda alle somme di denaro che sono state spese, i costi della sicurezza per proteggere i nostri lavoratori sono stati dell'ordine del 20 per cento”. E gli esperti dicono che questo è il quadruplo di quanto è stato speso in altri paesi in condizioni analoghe. “E a tutto questo va aggiunto – dice sempre l’appaltatore - un altro 20 per cento, perché abbiamo dovuto rifare molto del lavoro, dopo che era stato sabotato. Quindi, questo significa che si scende al 60 per cento della somma originariamente prevista dal contratto”.
Ma è anche vero che non sono le esigenze di un ambiente ostile a “danneggiare” quel piano che secondo Bush doveva “lasciare le infrastrutture in condizioni migliori di quelle in cui gli Usa le avevano trovate”. Perché oltre al caos militare e politico c’è anche quello economico. Con la cosiddetta ricostruzione che diviene un affare. Perché i contratti offerti alle società spesso consentono di ottenere pagamenti senza che ci siano regimi di controllo adeguati. Parecchi contratti ne sono un esempio: un contratto da 243 milioni di dollari per ricostruire 150 centri sanitari di base è stato assegnato alla statunitense “Parsone” nel marzo 2004, ma due anni dopo il numero di centri ha dovuto essere ridotto per la mancanza di progressi. Alla fine il contratto è stato rescisso e il lavoro riassegnato; un altro contatto, per costruire un ospedale pediatrico a Bassora, assegnato alla “Bechtel”, ha visto il costo quasi raddoppiare a 98 milioni di dollari, mentre il completamento è stato ritardato dal dicembre 2005 al luglio 2007. Caos finanziario anche nel campo dell’assistenza relativa all’addestramento della polizia irachena. Qui il gruppo Usa “Dyncorp”, che doveva realizzare un campo residenziale, ha eseguito lavori non autorizzati e la documentazione in merito era stata alterata.
Ora, per tornare all’incontro di Sharm el Sheik, si vede chiaramente che le questioni di geopolitica hanno preso il sopravvento dal punto di vista dell’immagine esterna. Ancora una volta sulla testa dell’Iraq si impongono le grandi scelte strategiche. Ed esplodono anche le questioni relative al settarismo che caratterizza molti Paesi arabi. Si favorisce, tra l’altro, l'elemento sciita, ponendo in primo piano, l'esigenza di un equilibrio fra i diversi gruppi, in contrasto ora per ideologie religiose, ora per differenze etniche. Il tentativo attuale è di fare in modo che quel che Saddam era riuscito ad ottenere con l'autorità e la conseguente repressione lo si vorrebbe raggiungere oggi in maniera democratica. Ed è in questo contesto che non va dimenticato – e il vertice dei giorni scorsi ne è stato una prova – che qui non si tratta soltanto di dare una sistemata alle faccende interne irachene con un pur problematico accordo tra le fazioni, ma di offrire un equilibrio possibilmente stabile al complicato quadro mediorientale, nel cui contesto gli Stati Uniti recitano un ruolo fondamentale.
Ora i commentatori internazionali vengono a spiegare l'importanza dell’approccio fra il Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, e il ministro degli Esteri siriano, Walid al Muallin, che rappresenterebbe appunto il primo incontro ad alto livello fra i due Stati dopo anni di distanza. Va ricordato, in proposito, che i rapporti fra i due Paesi vennero interrotti nel febbraio del 2005 dopo l'assassinio del Primo Ministro libanese Rafik Hariri, al quale Damasco, considerata responsabile da Washington, si è però sempre dichiarata estranea. E c’è di più: lo scorso mese Bush ha denunciato pubblicamente la speaker della Camera, Nancy Pelosi, per il suo viaggio a Damasco, in un Paese, cioè, che secondo il Presidente continua a sovvenzionare il terrorismo internazionale.
Ancora una volta, comunque, esplodono le contraddizioni. Con Washington che sostiene il Governo sciita iracheno, cosa che non piace ai governi sunniti di Egitto, Giordania e Arabia Saudita, che temono tra l'altro l'ingerenza sciita iraniana. Tutto questo avviene mentre la Siria, auspica per la soluzione del problema iracheno la ritirata degli Stati Uniti. Ma si sa bene che il governo iracheno di Al-Maliki ha bisogno del forte sostegno militare di Washington.
Complesso è poi l'atteggiamento saudita. Il re Abdullah mostra una certa freddezza nei confronti dello sciita Al-Maliki. Situazione, quindi, carica anche di imprevisti. Che riguardano il tragico contenzioso tra sciiti, sunniti e curdi. Da Sharm el Sheik non è pertanto venuta nessuna indicazione in proposito. E a nulla valgono i tentativi della diplomazia istituzionalizzata di nascondere ciò che è sotto gli occhi di tutti. E cioè che in Iraq sono in corso due guerre: una civile ed una di resistenza. Tutto questo con i paesi dell’area che stanno divenendo sempre più attori e registi di un “grande gioco”. A pagare, intanto, è il popolo iracheno che cade sotto i colpi del “fuoco amico”.
L’ IRAQ A SHARM EL SHEIK: GLI AFFARI DELLA RICOSTRUZIONE
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