Le conseguenze dell’attacco di Hezbollah in territorio israeliano nel fine settimana continuano a rimanere occultate dalla censura del regime di Netanyahu. Secondo il premier israeliano, inoltre, le forze armate sioniste avevano colpito con un’operazione “preventiva” buona parte dei sistemi di lancio del partito-milizia sciita in Libano, limitando considerevolmente i danni in seguito provocati. Le dichiarazioni di Netanyahu non sembrano tuttavia trovare riscontri concreti. L’iniziativa di Hezbollah potrebbe avere comunque un seguito nel breve periodo, ma già da ora, se portata a compimento nei termini descritti dal suo leader Hassan Nasrallah, potrebbe nuovamente ridefinire i meccanismi di deterrenza lungo il fronte meridionale, con ripercussioni sul genocidio in corso a Gaza e gli equilibri strategico-militari dell’intera regione.

Hezbollah ha utilizzato missili e droni per rispondere all’assassinio del comandante di alto livello, Fuad Shukr, avvenuto a Beirut il 30 luglio scorso. Due sarebbero stati gli obiettivi principali dell’attacco. Il primo è l’unità 8200 dell’intelligence militare israeliana situata nella base di Glilot a un centinaio di chilometri dal confine libanese e praticamente alla periferia di Tel Aviv. L’altro è la base aerea di Ein Shemer, a 75 chilometri dal primo e a 40 dalla seconda.

 

L’entità dei danni non è appunto nota. Hezbollah ha assicurato che non vi sono state vittime civili, ma gli obiettivi sono stati scelti perché direttamente collegati all’attacco a Beirut di fine luglio, nel quale avevano perso la vita anche tre donne e due bambini. Questa operazione israeliana era stata ufficialmente la ritorsione per un bombardamento sul villaggio di Majdal Shams, nelle alture del Golan siriane occupate, che aveva ucciso dodici bambini. Israele aveva attribuito quest’ultimo a Hezbollah, ma tutti gli elementi emersi facevano pensare a un attacco deliberato israeliano o a un missile della contraerea finito fuori rotta.

Sempre Nasrallah ha spiegato che l’operazione di domenica in profondità nel territorio di Israele è partita con il lancio di oltre 300 missili Katyusha diretti contro una decina di basi militari nemiche poco oltre il confine. L’obiettivo era di provocare la reazione della contraerea israeliana (“Iron Dome”), così da aprire i cieli a un’ondata di droni che hanno poi colpito i bersagli più importanti ricordati in precedenza. Se l’operazione “preventiva” di Israele avesse avuto successo, come sostenuto da Netanyahu, difficilmente Hezbollah sarebbe stato in grado di mobilitare questa forza di fuoco.

Nell’operazione non sono state in ogni caso utilizzate le armi “strategiche” più sofisticate a disposizione di Hezbollah. La scelta di tenere nei propri depositi i missili con maggiore precisione ed efficacia e di optare principalmente per i droni ha permesso alla Resistenza libanese di ottenere un duplice risultato. Come ha spiegato il giornalista belga veterano del Medio Oriente Elijah Magnier, il ricorso ai droni dipende dal fatto che Hezbollah “preferisce ancora evitare una guerra su vasta scala” con Israele. Se fossero stati utilizzati ordigni in grado di causare alti livelli di distruzione, Tel Aviv avrebbe reagito pesantemente, avvicinando una guerra totale.

Lo stesso giornalista aggiunge dal suo blog che la risposta di Hezbollah all’assassinio di Shukr è una decisione calcolata per mostrare allo stato ebraico che le proprie capacità offensive con armi più precise e potenti restano intatte. In caso di escalation, perciò, Israele si troverebbe a far fronte ad attacchi devastanti. Ciò rappresenta quindi un deterrente che obbliga Netanyahu e i vertici militari sionisti alla cautela, malgrado la retorica aggressiva, essendo consapevoli delle capacità di Hezbollah e dei rischi di una guerra aperta in Libano.

Al di là dell’efficacia o meno dell’attacco “preventivo” di Israele nel fine settimana, anche l’eventuale distruzione di qualche migliaio di missili o droni pronti al lancio non cambierebbe di molto la situazione, visto che lascerebbe comunque intatta la capacità offensiva di Hezbollah. Per stessa ammissione di Israele, quest’ultimo dispone di un arsenale di qualcosa come 250 mila missili, inclusi ordigni a media e lunga gittata ad alta precisione. Essi, assieme a sistemi di lancio mobili, sono per lo più nascosti in depositi sotterranei difficilmente raggiungibili da Israele.

La realtà che Netanyahu si trova davanti è quella di un nemico che ha dimostrato di essere in grado di colpire al cuore di Israele, e non solo pochi chilometri oltre il confine, anche senza utilizzare le proprie armi “strategiche”. Nelle scorse settimane, inoltre, Hezbollah aveva reso pubbliche immagini registrate da droni lanciati in ricognizione sopra obiettivi israeliani ultra-sensibili, di fatto esposti a possibili attacchi.

Il governo di ultra-destra israeliano è così sottoposto a pressioni crescenti. L’assalto genocida a Gaza continua a non produrre i risultati strategici prefissati dopo il 7 ottobre scorso e il prolungamento delle operazioni militari fa crescere, oltre all’isolamento internazionale, il rischio di risposte – coordinate o meno – di tutte le componenti dell’Asse della Resistenza. Sul fronte libanese, poi, la sfida di Hezbollah rende ancora più calda la questione dei coloni che vivono nelle aree di confine, evacuati da mesi e ai ferri corti con un governo che semplicemente non ha soluzioni per risolvere la crisi.

Resta ad ogni modo il fatto che anche Hezbollah preferirebbe evitare l’escalation dello scontro e questa attitudine è emersa dal discorso di Nasrallah seguito all’operazione di domenica. Il leader del partito-milizia sciita libanese ha spiegato che la seconda parte della ritorsione per l’assassinio del comandante Shukr potrebbe anche non avere luogo, se verrà appurato che la prima fase ha soddisfatto tutti gli obiettivi stabiliti. L’affermazione va collegata allo scopo primario della mobilitazione di Hezbollah contro Israele, vale a dire la difesa dei palestinesi a Gaza. In altri termini, l’abbassamento delle tensioni si avrà solo con una tregua permanente nella striscia.

In sospeso, a questo proposito, resta sempre anche la risposta dell’Iran all’assassinio del leader dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran il 31 luglio. Le capacità della Repubblica Islamica sono evidentemente superiori a quelle di Hezbollah e anche la leadership iraniana sta calibrando i propri piani di ritorsione con un mix di minacce, pressioni e aperture legate all’eventuale sblocco della diplomazia in merito a Gaza.

A rendere ancora più complicata la situazione per Netanyahu sono infine le divisioni crescenti che attraversano la società israeliana, con gli ambienti ultra-radicali rappresentati nell’esecutivo che stanno assumendo sempre più caratteri apertamente terroristici e, dall’altra, esponenti dell’opposizione, dei servizi segreti e, in parte, dei vertici militari preoccupati per il percorso auto-distruttivo che il progetto sionista sembra avere intrapreso. Lo stesso appoggio degli Stati Uniti, sia pure mai realmente in discussione, rischia di non essere più così decisivo per Tel Aviv, anche per le implicazioni elettorali di quella che è di fatto la piena complicità di Washington nel genocidio palestinese. Infatti, l’assistenza americana ostentata nell’operazione “preventiva” in Libano del fine settimana non sembra essere servita a evitare la ritorsione di Hezbollah.

L’amministrazione Biden, in ogni caso, intende mantenere la rotta attuale, farà cioè solo pressioni molto limitare su Netanyahu per accettare un cessate il fuoco degno di questo nome, accettando di conseguenza il rischio di una conflagrazione regionale. A dimostrazione di ciò, dopo gli eventi del fine settimana, il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, ha ordinato a due portaerei americane di rimanere in Medio Oriente, cancellando i piani precedenti che prevedevano, per almeno una delle due, il rientro in tempi brevi negli Stati Uniti.

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