Il lager di Guantánamo è tornato al centro dell’interesse della stampa americana nei giorni scorsi con l’annuncio, subito rientrato, di un accordo tra tre sospettati di avere organizzato gli attentati dell’11 settembre e il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. I legali di Khalid Shaikh Muhammad, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi avevano accettato di dichiararsi colpevoli in cambio della rinuncia da parte dell’accusa a chiedere una condanna alla pena di morte. Poco dopo la diffusione della notizia e l’esplodere di una feroce polemica a Washington, il numero uno del Pentagono in persona, l’ex generale Lloyd Austin, ha però rescisso il patteggiamento, facendo ripiombare l’intera vicenda nel pantano di un procedimento pseudo-legale senza via d’uscita.

 

I tre imputati avrebbero trascorso il resto della loro vita in un carcere americano e, in qualche modo, sarebbe stata finalmente chiusa un’odissea che prosegue ormai da due decenni. L’accordo era visto come la soluzione preferita a un rebus che le amministrazioni seguite a quella di George W. Bush non sono state in grado di sciogliere. I detenuti a Guantánamo per i fatti legati all’11 settembre sono formalmente imputati di fronte a una commissione militare dalla più che dubbia legittimità. I più basilari diritti democratici sono loro quasi completamente negati, ma, allo stesso tempo, il governo si ritrova nella sostanziale impossibilità di portare a termine il processo a causa delle gigantesche violazioni del diritto commesse nel quadro della “Guerra al Terrore”.

L’ostacolo maggiore è rappresentato dai metodi di tortura utilizzati dalla CIA sui sospettati finiti agli arresti, molto spesso senza nessuna prova a loro carico, dopo gli attentati del 2001. In molti casi fermati in Pakistan, questi ultimi venivano poi messi su voli clandestini e trasportati in varie località del pianeta (“rendition”), dove governi e servizi di intelligence compiacenti avevano messo a disposizione strutture segrete per condurre i cosiddetti “interrogatori potenziati”, ovvero torture per estrarre confessioni.

Khalid Shaikh Muhammad fu ad esempio sottoposto per 183 volte a “waterboarding”, oltre ad altri trattamenti in seguito descritti da un devastante rapporto del Congresso. Questi sistemi autorizzati ai massimi livelli dell’agenzia di Langley e della stessa amministrazione Bush avrebbero poi rappresentato un ostacolo insormontabile nei processi istruiti contro alcuni di coloro che, dopo le torture, erano finiti nella struttura di detenzione di Guantánamo. Anche per la farsa delle commissioni militari, create ad hoc per processare individui tenuti deliberatamente fuori dal territorio americano così da negare loro i diritti previsti dalla Costituzione USA, il trattamento riservato dalla CIA era troppo estremo e le prove estorte in questo modo del tutto inammissibili.

Se una parvenza di democraticità dovesse essere rimasta in questo sistema, i casi giudiziari degli imputati che ancora risiedono a Guantánamo dovrebbero essere rapidamente archiviati. Al contrario, i procedimenti vengono posposti in continuazione, con i politici a Washington che continuano a strumentalizzare la vicenda senza alcun interesse per il trattamento dei detenuti e alimentando oltretutto l’illusione dei famigliari delle vittime dell’11 settembre che giustizia verrà in qualche modo fatta. Il risultato è che gli accusati, non essendo condannabili, restano a languire a tempo indefinito nella famigerata struttura sull’isola di Cuba.

Alla luce di ciò, l’accordo che settimana scorsa era stato raggiunto tra i legali dei tre imputati e il dipartimento della Difesa sembrava per molti una soluzione ragionevole, anche se oggettivamente ben lontana dall’essere equa e democratica. La notizia è stata però subito sfruttata soprattutto dal Partito Repubblicano per accusare la Casa Bianca di avere tradito i morti negli attentati e di essere troppo tenera con i terroristi. A detta dei critici, la pena di morte, esclusa appunto dal patteggiamento, resterebbe l’epilogo più giusto, nonostante i già ricordati ostacoli a una condanna di questo genere.

Le stesse associazioni dei famigliari delle vittime hanno criticato l’accordo, talvolta non per un semplice desiderio di vendetta contro gli accusati ma per il timore che la conclusione del processo contro Khalid Shaikh Muhammad, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi sarebbe equivalso a un colpo di spugna sulle reali responsabilità dell’11 settembre, in particolare relativamente al ruolo svolto dal governo dell’Arabia Saudita.

Con la campagna elettorale in pieno svolgimento, il rischio di mostrarsi debole sui temi della sicurezza nazionale ha messo in allarme l’amministrazione Biden e nel fine settimana il segretario alla Difesa Austin è intervenuto bloccando l’accordo tra i legali degli imputati e l’accusa. Per la propaganda di Washington, il caso resta quindi aperto e lascia in teoria intatta la possibilità di infliggere la pena di morte ai tre imputati. Nella realtà, al contrario, il caso rimarrà in stallo indefinitamente, per poi finire lontano dall’attenzione dei media una volta archiviata la polemica di questi giorni.

L’esito più gradito sarebbe molto probabilmente la morte per cause “naturali” di detenuti profondamente provati nel fisico e nella mente da feroci torture e da due decenni di detenzione in condizioni estreme, in molti casi mai nemmeno incriminati formalmente di un reato. Ad alcuni dei rimanenti “ospiti” di Guantánamo è stato infine dato il via libera alla liberazione anni fa, ma per ragioni di varia natura i provvedimenti rimangono inattuati.

Dalla promessa mai mantenuta di Obama di chiudere il lager al disinteresse di Trump e Biden, Guantánamo resta non tanto una macchia sulla declinante “democrazia” americana, quanto un simbolo della strumentalizzazione politica di eventi gravissimi e complessi, nonché una testimonianza vivente del totale disinteresse per i diritti costituzionali più fondamentali da parte del governo degli Stati Uniti.

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