Come nelle più scontate spy-stories, accettare il negoziato da un lato comporta impedirlo dall’altro. Com’è noto, Ismail Haniyeh, capo di Hamas, esponente riconosciuto dell’ala politica più incline a sostenere un processo unitario di riorganizzazione della resistenza palestinese e negoziatore con Israele, è stato barbaramente assassinato da un attentato ad opera dei servizi segreti di Tel Aviv. Haniyeh si trovava a Teheran per la cerimonia d’insediamento del Presidente iraniano Pezshkian ed era reduce dal Vertice di Pechino dove, grazie agli  sforzi diplomatici cinesi, l’intera gamma delle formazioni palestinesi avevano trovato un accordo. Haniyeh, peraltro, era tra i candidati più accreditati a guidare il percorso di riconciliazione unitaria.

 

La sua sostituzione con Khaled Meshal (sopravvissuto ad un avvelenamento del Mossad) comporterà comunque un riassetto della funzionalità di Hamas e del dialogo corrente con le altre organizzazioni palestinesi ed i suoi interlocutori esteri.

L’ennesimo attentato dimostra che ormai Israele ha perso ogni dimensione statuale in conformità con la disciplina giuridica internazionale che sottintende l’attività degli stati e si è ridotta ad una entità terroristica, solo con maggiori dotazioni e protezioni dell’Occidente del quale continua ad essere il braccio armato in Medio Oriente. Solo nelle ultime due settimane Israele ha bombardato quattro paesi (Siria, Libano, Palestina e Iran) senza che la famosa “comunità internazionale delle regole” – ovvero l’Occidente Collettivo - si sia sentito in dovere di dire una parola. Il metro di misura dell’intangibilità delle frontiere vale solo per la Russia?

Quest’ultimo assassinio, l’ennesimo operato da Israele verso le leadership dei paesi e dei partiti rivali, aveva diversi obiettivi. Sabotare i possibili (ormai difficili anche solo da immaginare) colloqui di pace che portassero a risultati superiori a quello di un qualunque, momentaneo, cessate il fuoco a Gaza. Sferrare uno schiaffo alla Cina, dimostrando l’assoluta indifferenza al suo lavoro diplomatico e agli esiti politici dello stesso, ribadire che i palestinesi non rappresentano una entità politica ma solo un obiettivo militare.

Un altro aspetto, non meno importante ed altrettanto evidente, era quello di colpire l’Iran. Teheran afferma essersi trattato di un missile a breve raggio e poi c’è poi la versione interessata israeliana, che parla di operazione realizzata grazie a collaborazione interna. Questa versione vuole inviare un messaggio preciso: Tel Aviv è in grado di colpire obiettivi sensibili e protetti nella capitale iraniana.

Ma il principale obiettivo di Israele era e resta quello di trascinare direttamente la Casa Bianca nel progetto di Netanyahu, con un attacco simultaneo a Iran, Siria, Libano e Yemen. Attacco che, senza la copertura statunitense e britannica, oltre che sull’aiuto di paesi dell’area (Giordania e Marocco soprattutto) risulterebbe un tentativo velleitario destinato a produrre semmai una sconfitta dello Stato ebraico.L’idea di Netanyahu è quella di aprire una guerra mediorientale da far però combattere a USA e GB. Il problema è che gli Stati Uniti, oltre a dover fare i conti con l’immagine orrorifica di cui gode Israele, ormai per buona parte del mondo uno stato-canaglia, tutto considerato non ravvede l’utilità politica di una guerra contro l’Iran, tra le altre motivazioni anche in virtù dei mutamenti intervenuti nello scenario del Golfo, in particolare nella relazione con l’Arabia Saudita diversa, molto diversa dal passato e con il Qatar che difende e da rifugio ad Hamas.

Qui s’innescano le solite leggende che vorrebbero Netanyahu in aperto dissenso con Biden e Blinken appunto sulla questione dell’allargamento a tutto il Medio Oriente e al Golfo Persico di un possibile conflitto e che vedrebbero il Premier israeliano intento a rafforzare il suo governo con epurazioni mirate in attesa dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca per porter disporre della copertura internazionale.

Ovviamente non solo non c’è nessuno scontro con la Casa Bianca a guida democratica, come del resto nemmeno in Israele i governi laburisti hanno segnato politiche diverse da quelli a guida Likud. Vi sono valutazioni diverse sul “quando” e sul “come”, non sul “se”. Prova ne sia che la Casa Bianca si è affrettata ad informare il mondo che adeguerà la sua struttura militare nell’area per renderla funzionale alle necessità di difesa di Israele e dei suoi altri partner nella regione.

Come? Con l’invio di rinforzi di aerei da combattimento F22 e navi dotate di equipaggiamento antimissile Aegis. Si aggiungeranno alla portaerei Roosevelt che ufficialmente sta per essere rimpiazzata dalla Lincoln. Verrà forse rafforzato il dispositivo militare occidentale nel Mar Rosso contro i miliziani yemeniti e nel Mediterraneo opera la nave d’assalto anfibio Wasp, altre unità e il 24esimo Meu (Marines expeditionary unit), reparto di pronto intervento con elicotteri.

Che siano sufficienti a impedire preventivamente o a proteggere e rispondere successivamente ad un possibile attacco di ritorsione iraniano è tutto da stabilire. L’Iran ha fatto trapelare, attraverso voci amiche, la possibilità di una rappresaglia corale con la partecipazione di molte milizie alleate. L’Hezbollah libanese, gli Houthi yemeniti, le brigate sciite irachene, Hamas e Jihad, le fazioni minori parte del cosiddetto “anello dei missili” in Medio Oriente. Un eventuale “sciame“ di ordigni potrebbe saturare Iron Dome (lo schema anti missilistico di Israele) e l’intero complesso di difesa approntato e, del resto, tanto direttamente Teheran come ancor più Hezbollah hanno dimostrato di poter raggiungere comunque il territorio israeliano. A tal proposito si poi deve tener presente che l’esiguità del territorio israeliano e la concentrazione demografica in tre città rendono qualunque attacco una minaccia gravissima alla sua difesa.

Si vedrà se Teheran deciderà di reagire nell’immediato o sceglierà di decidere tempi e modi della sua risposta. Gli Stati Uniti annunciano l’attacco iraniano per lunedì o al massimo martedì. Vedremo se così sarà. Ma certo non potrà lasciare invendicati gli ormai ripetuti attacchi israelo-statunitensi dediti alla decapitazione del suo gruppo dirigente ed alla sua immagine di potenza regionale capace di rappresentare l’interlocuzione unica con l’universo Sciita e, nello stesso tempo, grazie al riavvicinamento diplomatico con l’Arabia Saudita e la stessa Turchia, dell’Islam in generale. Peraltro, la dimensione internazionale degli Ayatollah appare in espansione: gli accordi militari con Mosca, così come l’ingresso nei BRICS, ne testimoniano l’importanza e certificano l’ampliamento della sfera delle interlocuzioni.

Sono elementi che dovrebbero spingere a serie riflessioni tanto gli Stati Uniti come la stessa GB e la UE, dato che l’Occidente Collettivo non è in grado di sostenere gli ormai molteplici fronti aperti per sostenere i suoi progetti di destabilizzazione universale quale ricetta per la crisi imperiale che appare irreversibile. Difficile immaginare i criminali al governo di Tel Aviv intenti a riflettere sulle conseguenze globali di un conflitto che  allargherebbe a macchia d’olio i combattimenti in tutta la Regione fino al Golfo Persico, oltre che la stabilità politica e militare della NATO che potrebbe essere messa in discussione dalla posizione di Erdogan.

La Turchia, sunnita, è il secondo esercito più potente dell’Alleanza Atlantica e gli attacchi durissimi, corredati da minacce militari che il governo di Ankara ha rivolto a quello israeliano, dovrebbero indurre a pensare bene alle possibili conseguenze. Il bilancio delle perdite potrebbe essere devastante per Tel Aviv e non vi sarebbe spazio per possibili ripartenze. Il rischio boomerang è dietro l’angolo. Forse l’ombrello occidentale non è così grande da riparare tutte le avventure imperiali e il sogno di espellere tutti i palestinesi e di rubarsi una buona fetta del Medio Oriente potrebbe generare la fine del progetto di consolidamento internazionale dello stato ebraico. La fine, una volta e per sempre, della Eretz Israel.

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