Mentre il premier israeliano Netanyahu atterrava a Washington per incontrare i complici del genocidio, nella capitale cinese è stato annunciato un accordo potenzialmente decisivo tra le varie fazioni che rappresentano la popolazione palestinese. A mediarlo è stato il governo di Pechino, confermando il ruolo sempre più importante della Repubblica Popolare nello sforzo di stabilizzare la regione mediorientale. Nel concreto, l’evento andato in scena in Cina difficilmente produrrà risultati nel breve periodo, ma rappresenta senza dubbio l’emergere di una nuova piattaforma unitaria attorno alla quale i movimenti palestinesi – tradizionalmente attraversati da profonde divisioni – potranno coordinare una strategia contro l’occupazione, alternativa a quella senza prospettive offerta dall’Occidente e dai regimi arabi.

 

Oltre alla crescente intraprendenza cinese nella regione, il fattore determinante per convincere i vari attori palestinesi a discutere e a trovare un punto d’incontro è evidentemente il genocidio che sta conducendo a Gaza lo stato ebraico, nonché l’offensiva anti-palestinese in corso sotto traccia in Cisgiordania. I negoziati hanno visto come protagonisti Hamas e Fatah, la fazione dominante sia nell’OLP sia nell’Autorità Palestinese (AP), ma anche i rappresentanti di altre 12 organizzazioni palestinesi, tra cui il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).

Per stessa ammissione dei partecipanti, l’accordo costituisce un progresso come mai era stato fatto negli ultimi due decenni nonostante i molti tentativi di riconciliazione. L’elemento centrale è il percorso concordato per la formazione di un governo di unità nazionale che neutralizzi le manovre di Israele e Stati Uniti per dividere il movimento palestinese. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che ha presieduto ai colloqui, ha spiegato durante la cerimonia pubblica di martedì a Pechino che i risultati di maggiore rilievo sono la “riconciliazione tra le 14 fazioni” palestinesi e la riaffermazione dell’OLP come “unico legittimo rappresentante di tutto il popolo palestinese”.

Il numero uno della diplomazia cinese ha poi aggiunto che il governo provvisorio, che dovrebbe scaturire dall’intesa, avrà come primo obiettivo la ricostruzione post-bellica di Gaza, così come si dovrà adoperare per la creazione di uno stato palestinese realmente indipendente, in accordo con le risoluzioni ONU di riferimento. Se le posizioni di Israele e Occidente (USA) restano evidentemente decisive nel favorire questi processi, e tutto indica che le prospettive non siano incoraggianti, la sottoscrizione dell’accordo da parte di tutti i gruppi palestinesi e la garanzia dell’appoggio cinese al processo fanno sperare che si tratti almeno di un primo passo reale verso la risoluzione del conflitto.

Come era ampiamente prevedibile, il regime di Netanyahu ha condannato duramente l’esito della conferenza inter-palestinese. Anche da Washington non è arrivato ovviamente nessun commento positivo. È facile intuire che i due alleati e complici del genocidio auspichino un fallimento dell’accordo favorito da Pechino. Vanno fatte tuttavia un paio di considerazioni a questo proposito. In primo luogo, se anche il meccanismo mediato dalla Cina rappresenta poco più di un’incognita, l’alternativa è dimostrata essere un tragico fallimento. Decenni di illusioni basate su sterili colloqui di pace e il miraggio dei “due stati” hanno portato solo morte, sofferenza e una continua perdita di terra per i palestinesi.

Inoltre, il minimizzare il contributo di Pechino non tiene conto della realtà in rapido cambiamento in Medio Oriente e su scala globale. Per quanto riguarda la regione, anche l’accordo raggiunto sempre con l’intervento cinese tra Iran e Arabia Saudita nel marzo del 2023 era stato sminuito dai governi occidentali, ma finora ha invece generato progressi significativi. Soprattutto, il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche tra i due ex rivali si sta innestando nei processi multipolari in atto, che vedono sempre al centro la Cina, osservabili ad esempio nell’avvicinamento al gruppo dei BRICS di Teheran e Riyadh.

La chiave del potenziale successo dell’accordo tra le fazioni palestinesi appena siglato consiste nella prospettiva di una soluzione interna, al contrario di quelle imposte finora da potenze esterne. Infatti, lo stesso giorno della notizia dell’accordo in Cina, la stampa americana ha scritto di un vertice tenuto settimana scorsa ad Abu Dhabi tra rappresentanti di USA, Israele ed Emirati Arabi per studiare un piano da implementare a Gaza alla fine della guerra.

Quelli in discussione sono appunto progetti imposti dall’alto che rispondono agli interessi di Israele e delle monarchie sunnite, oltre che a quelli di Washington. Emblematica è a questo proposito l’insistenza di Netanyahu nel respingere qualsiasi ruolo per Hamas nella striscia, dal momento che l’obiettivo resta quello di distruggere il movimento islamista palestinese. Si tratta in sostanza di piani unilaterali e illusori che non tengono conto della realtà sul campo né del sostanziale fallimento strategico dello stato ebraico nel condurre la guerra di aggressione nella striscia.

È evidente che le strette di mano tra i rappresentanti palestinesi a Pechino non cancellano frizioni e disaccordi di lunga data. Tuttavia, proprio l’agenda massimalista del regime di Netanyahu sotto la spinta degli alleati ultra-radicali del premier/criminale di guerra sta mettendo la fazione palestinese più moderata, in sostanza l’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), sempre più all’angolo, fino a costringere quest’ultima a rimettere seriamente in discussione i decenni di collaborazionismo con le forze occupanti.

La via d’uscita è quindi la messa da parte delle differenze, principalmente con Hamas, e il lancio di una road map verso la creazione di una leadership unitaria, per poi indire finalmente elezioni e avviare una complicata ricostruzione nella striscia, nonché progettare i passi successivi per arrivare alla proclamazione di uno stato palestinese indipendente. Ciò non toglie che gli ostacoli restino enormi, a cominciare dalla traiettoria autodistruttiva intrapresa dallo stato ebraico che nel breve e medio periodo si manifesta però con il progetto genocida a Gaza e la marcia a grandi passi verso l’annessione della Cisgiordania.

Le chances di riuscita dei progetti proclamati questa settimana a Pechino dipendono anche e soprattutto dall’integrazione mediorientale nei processi di sviluppo che interessano il “Sud Globale”. È necessario per questa ragione tornare al contributo della Cina, che evidentemente e legittimamente coltiva i propri interessi economici e strategici nell’adoperarsi per una soluzione diplomatica alla guerra in corso e all’intero problema palestinese.

A differenza degli USA e dei loro alleati, la proposta cinese appare sulla carta vantaggiosa per tutte le parti coinvolte, proprio perché implica stabilità, investimenti e impulso allo sviluppo commerciale, industriale e infrastrutturale. Un Medio Oriente pacificato con la prospettiva della nascita di un’entità palestinese pienamente indipendente nel quadro della soluzione dei “due stati” è quanto Pechino fa intravedere attraverso la propria attività diplomatica, contro uno scenario di guerra, violenze e divisioni che comporta invece il predominio di Stati Uniti e Israele.

Se l’accordo di Pechino lascia quindi intatti quasi tutti i dubbi e gli ostacoli sulla lunga strada verso la liberazione della Palestina, esso rappresenta però forse anche il primo autentico passo verso il superamento di un conflitto finora irrisolvibile e di fatto ostaggio degli interessi di Washington e del progetto criminale sionista.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy