A pochi giorni di distanza dal dodicesimo anniversario della perdita della libertà a causa della persecuzione giudiziaria del governo americano e dei suoi complici in Gran Bretagna, Svezia, Ecuador e Australia, Julian Assange è tornato finalmente un uomo libero nella giornata di lunedì grazie a un accordo raggiunto con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Di un possibile patteggiamento si discuteva in maniera non ufficiale da qualche mese, ma a convincere Washington a mollare la presa è stata una combinazione di fattori, primo fra tutti l’insostenibilità delle ragioni dell’accusa con l’approssimarsi dell’epilogo di un procedimento-farsa orchestrato fin dall’inizio per infliggere una punizione esemplare al 52enne giornalista australiano.

 

Viste le implicazioni e la ferocia con cui la “giustizia” americana si è accanita contro Assange per oltre un decennio, è difficile sovrastimare la vittoria che rappresenta la sua liberazione dal carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nei dintorni di Londra. Il fondatore di WikiLeaks ha dovuto concedere all’amministrazione Biden una dichiarazione di colpevolezza su uno dei capi d’accusa imputatigli, ma nel complesso la macchinazione costruita sulla base dell’ultra-repressivo e anti-democratico “Espionage Act” del 1917 è alla fine crollata miseramente.

Erano in totale 17 i capi d’accusa contestati ad Assange per avere ottenuto e pubblicato materiale governativo classificato che documentava una lunghissima serie di crimini commessi dagli Stati Uniti. Ovvero, per avere svolto il lavoro di giornalista. Assange, se estradato in America e condannato, rischiava una pena fino a 170 anni di carcere. Con l’accordo finalizzato dai suoi legali, dovrà invece riconoscere il solo “crimine” di “cospirazione per ottenere e diffondere informazioni classificate relative alla sicurezza nazionale”.

Il patteggiamento sarà ratificato mercoledì mattina davanti a un giudice americano del tribunale di Saipan, la capitale del territorio USA delle Isole Marianne Settentrionali, nell’Oceano Pacifico. Questa soluzione è stata trovata per evitare che Assange si fosse dovuto recare negli Stati Uniti. Lo scorso mese di marzo, il Wall Street Journal aveva rivelato l’esistenza di una trattativa segreta tra Assange e il dipartimento di Giustizia americano per trovare una soluzione al caso e uno degli ostacoli sembrava essere appunto l’apparizione di persona del giornalista australiano in un’aula di tribunale nello stato della Virginia, dove risulta incriminato, per sottoscrivere un eventuale patteggiamento.

La presenza di Assange in territorio USA avrebbe però comportato un rischio enorme, così che varie ipotesi alternative erano state avanzate da esperti legali e commentatori, come la contestazione di un solo reato minore (“misdemeanor”) che avrebbe reso possibile lo svolgimento anche di un’udienza a distanza. Alla fine, le due parti hanno concordato per una sorta di compromesso con la scelta del tribunale delle remote Isole Marianne Settentrionali.

Salvo eventuali clamorose sorprese, come la detenzione di Assange all’arrivo nel territorio amministrato dagli Stati Uniti, dopo la sua ammissione di colpevolezza su un unico capo d’accusa, un giudice approverà l’accordo ed emetterà una condanna a 62 mesi, che si annullerà grazie allo stesso periodo trascorso nel carcere britannico in attesa di estradizione. Dopodiché, come si legge anche nella nota ufficiale del dipartimento di Giustizia, Assange volerà verso l’Australia e la definitiva libertà.

La fine della caccia alle streghe contro il fondatore di WikiLeaks arriva poche settimane prima del processo di appello che era in programma davanti all’Alta Corte di Londra, che avrebbe dovuto esprimersi sul merito della richiesta americana di estradizione. I due giudici che presiedevano il procedimento avevano recentemente accettato la tesi della difesa, ammettendo il ricorso sulla base della probabile violazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione dell’imputato in un tribunale negli Stati Uniti.

Davanti alla giustizia USA, cioè, Assange non avrebbe potuto difendersi appellandosi al Primo Emendamento della Costituzione in quanto non cittadino americano. Questo fattore avrebbe invalidato l’intero procedimento, poiché in violazione del trattato di estradizione tra USA e Regno Unito. I procuratori del governo di Washington avevano cercato di dare rassicurazioni in questo senso alla Corte di Londra, ma nessuna garanzia poteva in realtà sussistere in quanto la decisione non spettava al governo bensì a un giudice non sottoposto al controllo dell’esecutivo e, in secondo luogo, perché la stessa Corte Suprema americana ha emesso una sentenza nella quale viene stabilito che il Primo Emendamento non è automaticamente esteso a coloro che non sono cittadini degli Stati Uniti.

In definitiva, lo sblocco della situazione a favore di Julian Assange è dovuto al fatto che il governo americano rischiava di ritrovarsi in una situazione imbarazzante, con la prospettiva che la richiesta di estradizione fosse respinta anche da un sistema giudiziario, come quello britannico, di fatto complice della persecuzione. L’accordo con Assange è anche un tentativo di allentare le pressioni crescenti per la liberazione di quest’ultimo ed evitare al presidente Biden la vergogna di un processo contro un giornalista nel pieno della campagna elettorale.

È in ogni caso in primo luogo la coraggiosa resistenza di Assange, della sua famiglia e dei suoi sostenitori ad avere portato alla liberazione e alla fine di un lunghissimo incubo. La causa di Assange e WikiLeaks ha progressivamente raccolto simpatie e consensi, trasformandosi in una campagna globale contro la persecuzione del governo degli Stati Uniti. Persecuzione denunciata in maniera sempre più ferma ed esplicita da giornalisti indipendenti, politici e autorità di primissimo piano nell’ambito della difesa dei diritti civili. Il relatore dell’ONU sulle torture Nils Melzer aveva ad esempio pubblicato il suo rapporto sul caso Assange nel 2019, denunciando come “tortura” il trattamento riservatogli.

Centinaia di medici di tutto il mondo avevano poi fatto appello ai governi di Washington e Londra per la sua liberazione sulla base di una situazione sanitaria in rapido declino proprio a causa delle condizioni di detenzione. Sul piano legale, inoltre, una valanga di elementi erano progressivamente emersi a favore di Assange e che, in qualsiasi normale caso giudiziario, avrebbero messo fine all’istante al procedimento.

Nel 2021, in particolare, un’esclusiva di Yahoo! News aveva rivelato come la CIA avesse spiato Assange e tutte le comunicazioni che intratteneva con l’esterno, incluse quelle con i suoi legali, mentre si trovava sotto la protezione dell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Altre rivelazioni riportavano invece il resoconto di discussioni interne all’amministrazione Trump, nelle quali si valutava la possibilità di rapire Assange per consegnarlo alla “giustizia” americana o, addirittura, di assassinarlo.

La decisione del governo americano di costringere Assange a dichiararsi colpevole di un capo d’imputazione resta un atto di vendetta e, assieme, un tentativo di salvare la faccia davanti al crollo di un castello di accuse totalmente illegittimo. Un comportamento ancora più meschino se si pensa alla denuncia fatta martedì dalla moglie di Assange, Stella Moris, la quale ha rivelato che Washington ha imposto alla sua famiglia di pagare 520 mila dollari al governo australiano come rimborso del volo charter su cui si è imbarcato a Londra, dopo che al numero uno di WikiLeaks era stato vietato di prendere un mezzo di linea.

L’atteggiamento americano sembra anche volere ribadire che non c’è nessuna disponibilità a fare un passo indietro sulla messa in stato d’accusa dell’attività giornalistica. La condanna formale che verrà emessa contro Assange nei termini previsti dall’accordo conferma che gli Stati Uniti intendono fare del caso un esempio per scoraggiare chiunque intenda pubblicare informazioni e notizie che facciano luce sui crimini dell’imperialismo americano. Ciononostante, derivando da un patteggiamento, almeno ufficialmente il caso Assange non costituirà un precedente legale vero e proprio.

L’amministrazione Biden avrebbe comunque potuto lasciare cadere semplicemente le accuse e rinunciare alla richiesta di estradizione, come in molti chiedevano da tempo, inclusi alcuni deputati e senatori americani o il governo australiano. Al contrario, è stato deciso di ratificare la criminalizzazione del giornalismo, lasciando aperta la strada a future ulteriori iniziative, da parte di un sistema di potere sempre più oppressivo e in crisi di legittimità, per attaccare e restringere drasticamente la libertà di informazione.

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