La crisi esplosa oltre una settimana fa nella colonia francese della Nuova Caledonia ha raggiunto un livello tale di gravità da spingere il presidente Macron a recarsi personalmente sull’arcipelago situato in posizione strategica nel Pacifico meridionale. Il governo di Parigi sta cercando in tutti i modi di soffocare le proteste della popolazione indigena contro una recente modifica costituzionale che minaccia di alterare gli equilibri elettorali in questa “collettività francese d’oltremare”. Il malcontento della fascia più povera della popolazione caledoniana va ricondotto però anche all’aggravarsi della situazione economica, per via soprattutto delle difficoltà in cui si dibatte l’importante industria estrattiva di questo territorio, a sua volta collegata alle mire strategiche francesi e occidentali in genere.

 

Il 15 maggio scorso, la Francia ha imposto uno stato di emergenza della durata di 12 giorni, durante i quali le autorità sono dotate di ampi poteri per proibire raduni, manifestazioni e spostamenti, così come di ordinare arresti e perquisizioni. Nel fine settimana sono inoltre arrivati in Nuova Caledonia un migliaio di agenti di polizia dalla madrepatria, portando a quasi tremila il numero totale impiegato per mettere fine alle proteste e ai blocchi stradali che hanno quasi paralizzato la colonia francese.

Il caos era esploso dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale di Parigi di un emendamento alla Costituzione che consentirà di votare nelle elezioni ammnistrative e per il parlamento della Nuova Caledonia a coloro che vi risiedono da almeno dieci anni. Finora, il diritto di voto per i cittadini provenienti dall’Europa era riservato a quanti vivevano stabilmente sull’arcipelago da prima del 1998. Secondo i leader indipendentisti che rappresentano la popolazione autoctona (“Kanak”), la nuova legge punta a diluire il loro peso elettorale e politico, mentre consolida l’influenza francese sull’arcipelago e allontana la prospettiva dell’indipendenza. I “Kanak” compongono più del 40% della popolazione caledoniana contro circa il 24% di europei. Tra i primi, poco sorprendentemente, i livelli di povertà, disoccupazione ed emarginazione sociale risultano di gran lunga maggiori.

A inizio settimana, Macron aveva affermato che la situazione stava tornando progressivamente alla normalità, ma le notizie provenienti dalla capitale, Nouméa, e le dichiarazioni delle autorità locali danno un’impressione molto diversa. Il sindaco della capitale, Sonia Lagarde, ha ammesso ad esempio che la città è di fatto “sotto assedio”. I disordini sembrano anzi diffondersi nelle aree rurali e martedì i governi di Australia e Nuova Zelanda hanno iniziato a evacuare i loro cittadini che si trovano in Nuova Caledonia. La Francia ha autorizzato l’atterraggio di voli speciali da questi paesi, visto che l’aeroporto di Nouméa resta chiuso al normale traffico commerciale.

Il primo ministro francese, Gabriel Attal, ha presieduto nei giorni scorsi un comitato interministeriale di crisi per decidere le prossime mosse, a cominciare da una possibile estensione dello stato di emergenza. Nell’arcipelago i rapporti tra le varie forze politiche ed etnie restano tesi. I leader del principale partito indipendentista – Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista (FLNKS) – hanno chiesto a Parigi di ritirare la modifica costituzionale al centro delle proteste, assieme al lancio di un tavolo di negoziati. I movimenti politici filo-francesi sono invece fortemente contrari e ritengono che il ritiro dell’emendamento equivarrebbe a riconoscere il successo del “terrorismo”. In molti tra politici e commentatori avvertono che la crisi potrebbe sfociare in una vera e propria “guerra civile”, con livelli di violenza simili a quelli degli anni Ottanta del secolo scorso. Finora, si sono registrati comunque già sei morti nei disordini, tra cui due agenti di polizia.

Nel 1998 venne avviato un processo di auto-determinazione della popolazione autoctona che prevedeva la concessione di un certo livello di autonomia. Parigi aveva concordato anche l’organizzazione di tre consultazioni referendarie sul quesito dell’indipendenza dalla Francia. I primi due referendum, tenuti nel 2018 e nel 2020, avevano visto il successo con margini relativamente ristretti dei contrari all’indipendenza. Il terzo, invece, era stato segnato dal boicottaggio della popolazione indigena perché andato in scena nel pieno dell’emergenza COVID-19 a dicembre 2021. Con un’affluenza attorno al 44% - contro l’86% del 2020 – i favorevoli al mantenimento dello status quo erano stati il 96%.

La questione politico-elettorale all’origine delle manifestazioni di protesta e dei disordini di questi giorni in Nuova Caledonia è strettamente legata al grave deterioramento della situazione economica, nonché dell’allargarsi del divario tra la maggioranza della popolazione indigena da una parte e gli europei e la ristretta cerchia dei leader indipendentisti dall’altra. Una crisi economica e sociale inasprita dagli affanni dell’industria estrattiva caledoniana. Questo territorio francese vanta tra il 25% e il 30% delle riserve stimate globali di nickel, un elemento essenziale per la produzione, tra l’altro, dell’acciaio inox, ma anche di beni in rapida diffusione come batterie per auto elettriche e pannelli solari.

Il nickel contribuisce per il 90% alle esportazioni caledoniane e in questo settore è impiegato un quarto della forza lavoro dell’arcipelago. Negli ultimi anni, la produzione ha attraversato una serie di difficoltà, legate all’aumento dei costi dell’energia e alla riduzione o alla scomparsa totale degli investimenti esteri, principalmente a causa delle restrizioni all’export decise dalle autorità locali e dall’emergere di altri paesi dove l’estrazione e la lavorazione risulta più conveniente, come l’Indonesia.

La questione del nickel gioca un ruolo determinante nella crisi in atto e nei piani francesi. Questo elemento è stato dichiarato dall’Unione Europea come una materia prima “critica”, sia perché alimenta appunto l’industria “sostenibile” sia per il fatto che la Cina controlla o detiene investimenti in buona parte delle attività estrattive e della catena di approvvigionamento globale. Le quotazioni del nickel sono oltretutto già salite sensibilmente negli ultimi anni, anche a causa dei problemi incontrati dalle esportazioni russe dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022.

Il governo francese ha stanziato sussidi per centinaia di milioni di euro a sostegno dell’industria estrattiva del nickel in Nuova Caledonia, ma nonostante ciò la produzione continua a scendere. La flessione nel primo trimestre del 2024 è stata ad esempio del 32% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Parigi ha proposto un nuovo pacchetto di aiuti per il settore, che prevede un esborso di altri 200 milioni di euro, da destinare in particolare a sovvenzioni per limitare l’impatto del caro energia. Il provvedimento resta però nel limbo, con i negoziati in stallo anche a causa delle implicazioni per gli interessi delle élites locali in un’industria ancora controllata in larga misura da compagnie occidentali.

L’importanza della Nuova Caledonia per la Francia ha evidentemente anche altri risvolti strategici. Parigi può infatti contare su una nutrita presenza militare nelle isole che compongono questa “collettività” del Pacifico meridionale. Presenza militare in grado di garantire la proiezione degli interessi francesi in un’area del pianeta che sta diventando in fretta decisiva per le dinamiche geo-politiche derivanti dalla crescente competizione tra Cina e Stati Uniti.

Il riallineamento strategico in corso a livello globale sta infatti facendo di paesi e territori in questa regione, come la Nuova Caledonia, le Isole Salomone o la Papua Nuova Guinea (LINK), l’oggetto di una feroce contesa, con svariati paesi europei che stanno partecipando sempre più alle manovre americane di accerchiamento della Repubblica Popolare. In quest’ottica, è chiaro che la Francia non intende privarsi del vantaggio rappresentato dal controllo su quei territori che costituiscono l’eredità del colonialismo del XIX secolo.

Tanto più in un quadro nel quale le ambizioni da grande potenza di Parigi stanno subendo una batosta dopo l’altra. Nel continente africano, la Francia di Macron è già stata cacciata da alcune ex colonie dopo che i rispettivi regimi filo-francesi sono stati rovesciati da colpi di stato militari sostanzialmente appoggiati dalle popolazioni indigene.

Mentre anche in altri paesi dell’Africa il neo-colonialismo transalpino rischia di dovere incassare ulteriori umiliazioni, come nel Senegal appena uscito da una grave crisi politica, la Francia cercherà quindi in ogni modo di evitare il ripetersi di un simile scenario nel Pacifico. Il pugno di ferro contro le popolazioni in rivolta e lo sfruttamento alla base del sistema consolidato non faranno però che alimentare l’opposizione anti-francese, fino a rendere presto o tardi insostenibile l’edificio coloniale al servizio degli interessi economici e strategici di Parigi.

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