di Cinzia Frassi

Poco tempo è passato dall’empasse della finanziaria. In un primo momento il governo Prodi sembrava in bilico davanti all’evidente difficoltà di riuscire a far digerire agli italiani l’ennesima tornata di “sacrifici” in nome del bene del Paese; d'altra parte una legge di bilancio che si impone di rastrellare circa 35 miliardi di euro è una bella batosta. Eppure il governo del Professore ha tenuto e il Prodi si è mostrato sorridente e soddisfatto dei risultati, quasi come se la voragine in cui fino a poco tempo prima sembravano sprofondare i conti pubblici si fosse colmata improvvisamente. Non a caso lo stesso Presidente del Consiglio, poco prima di festeggiare capodanno, aveva dichiarato che si trattava di “una manovra forte che tocca molti aspetti della vita di tutti, che non poteva non portare a incomprensioni”, ma che, tuttavia, avrebbe portato “l'Italia al centro della scena europea”. Mentre esce di scena l’appuntamento con i conti pubblici e le risse di contorno, ecco che siamo subito messi davanti ad altre questioni di grande impatto sociale, senza nemmeno il tempo di riprendere fiato. Si tratta di temi che toccano da vicino ogni cittadino lavoratore e che scatenano da sempre un grande allarme sociale: le pensioni e il trattamento di fine rapporto. In un momento in cui il gradimento degli italiani al governo del Professore non è certamente alto, viene subito da chiedersi quali motivazioni lo spingano ad assecondare precipitosamente le richieste di Bruxelles. Non solo, sono in molti a domandarsi se il programma di governo, tanto sventolato in campagna elettorale, sia finito in fondo ad un cassetto o quanto meno abbia perso quella nobiltà di intenti a tutto tondo che lo facevano brillare di luce propria solo qualche mese fa.

Così mentre si fanno i conti con la famosa quarta settimana, siamo costretti a guardare in faccia quella che sarà la realtà quando usciremo dal mercato del lavoro. La necessità di intervenire sulle pensioni e sul famoso “Scalone” è data dal fatto che con il sistema contributivo la pensione viene calcolata sulla base di quanto il lavoratore ha effettivamente versato nell’arco della sua vita professionale. Mentre il sistema retributivo garantiva un assegno mensile ragionevole, calcolato in percentuale sulle ultime retribuzioni, il sistema contributivo non consente di ottenere un rendimento mensile adeguato, arrivando forse a somigliare a metà dello stipendio percepito dal lavoratore attivo.

E allora bisogna correre ai ripari. E magari per prima cosa cercare di capire non tanto quelle questioni che si pongono al centro della discussione, quanto quelle delle quali non si fa cenno. Perchè spesso si arriva alla radice del problema cercando di capire da un lato cosa intende esprimere il comunicatore – in questo caso il governo - dall’altro cosa vuole sentirsi dire chi ascolta. L’abilità di chi sa fare politica consiste nel riuscire a mettersi nei panni di entrambi, riuscendo, con abilità e astuzia, a togliersi dagli impicci.

Per prima cosa si chiama in causa il trattamento di fine rapporto e in gran silenzio si decide in sostanza di cambiare la sua natura. Infatti non si può più considerare il Tfr un piccolo capitale che ritroveremo come surplus del lavoro di una vita, in aggiunta ad una pensione più o meno dignitosa. Viene invece ad essere una componente necessaria ed integrativa di una previdenza insufficiente.
E’ prima di tutto di questo che si dovrebbe discutere e delle responsabilità che si presentano come nodi al pettine di una classe politica (di qualunque colore) quanto meno disinvolta nel gestire con lungimiranza e serietà il destino dei cittadini non più in età da lavoro, che qualcuno addirittura etichetta come “improduttivi”.

Nei prossimi mesi tocca per primi ai lavoratori del settore privato decidere cosa ne sarà del loro trattamento di fine rapporto: rinunciare alla liquidazione e dirottare quel denaro alla pensione integrativa o complementare, oppure lasciare le cose come stanno. In ogni caso sono chiamati a rinunciare a qualcosa, anche se si insiste a porre la questione sotto mentite spoglie. Se lo start-up dell’informazione circa gli elementi da valutare per decidere è stato in sordina, oggi viviamo invece in un mare di notizie, indicazioni, consigli di analisti finanziari, tabelle, aliquote, coefficienti, tipologie di fondi, tra chi paventa rischi e chi appare invece tranquillizzante. In un recente sondaggio realizzato da Simulation intelligence-Simera per il settimanale Panorama risulta che il 54,4% preferisce incassare il Tfr, il 25,9% è indeciso e solo il 19,7% intende destinare il denaro ad un fondo pensione complementare. Vedremo nei prossimi mesi come cambieranno queste percentuali.

Il clima di incertezza, anche sulle regole operative (mancando ancora i decreti attuativi), dà ossigeno alla diffidenza tra lavoratori, imprese, sindacati e gestori di fondi pensione, mentre quella fiducia e serenità nell’economia italiana sembra fare capolino solo un istante tra i cittadini solamente ad una visione frettolosa del sorriso pacioso e tranquillizzante del Presidente del Consiglio. Resta il fatto che l'informazione intorno al problema del Tfr appare oggi sempre più 'drogata' dai tanti soggetti che hanno grandi interessi e grandi mire in materia. Il Tfr e' infatti una 'torta' da 15 miliardi di euro che fa gola in particolare a banche e assicurazioni, interessate a giocare sui mercati finanziari di tutto il mondo un mese di salario all'anno dei lavoratori italiani. Nessuno, fino a questo momento, si è speso per spiegare ai lavoratori “attivi” di questo Paese cosa succede se i mercati vanno male, o se i fondi pensione falliscono; oppure se il lavoratore che ha optato in queste direzioni chiede di poter riscuotere anticipatamente per proprie esigenze la liquidazione maturata. In tutti questi casi ci perdono i lavoratori. Ma non lo dice nessuno.

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