di Michele Paris

Per la terza volta in sei anni, la Federal Reserve americana ha annunciato questa settimana la fine del proprio programma di acquisto di titoli azionari legati ai mutui e di bond del Tesoro, comunemente denominato “quantitative easing” (QE). Il programma è servito in sostanza a iniettare migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario d’oltreoceano e si è accompagnato al mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero, cosa che la Fed ha assicurato di voler continuare anche nel prossimo futuro.

La decisione senza precedenti di intraprendere la strada del QE era stata adottata dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, dopo che sul finire del 2008 la crisi finanziaria da poco esplosa aveva gettato i vertici politici e finanziari americani nella disperazione. Senza altri strumenti a disposizione per influenzare il corso degli eventi, una volta azzerati i tassi di interesse, Bernanke aveva avviato il discusso programma di acquisto per sostenere i mercati, garantendo agli istituti finanziari la possibilità di scaricare sulla Fed i propri “asset” senza valore.

La terza e fin qui ultima fase del “quantitative easing” o QE3 era iniziata nel settembre del 2012 con l’acquisto di titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari ogni singolo mese. Tre mesi più tardi, la Banca Centrale USA avrebbe poi aggiunto altri 45 miliardi mensili per acquistare bond del Tesoro. Il graduale abbandono del QE, o “tapering”, era iniziato nel gennaio di quest’anno, in coincidenza con l’addio alla Fed di Bernanke. Al poso di quest’ultimo, il presidente Obama avrebbe scelto la sua vice, Janet Yellen, la quale ha seguito diligentemente i piani del suo predecessore.

I titoli nel portafoglio della Fed hanno così raggiunto cifre da capogiro, essendo passati da meno di mille miliardi all’inizio del programma ai quasi 4,5 mila miliardi odierni, pari a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti. Vista l’esposizione della Fed, in caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, le prospettive in termini di tenuta del sistema appaiono dunque preoccupanti.

La chiusura del rubinetto erogante denaro stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Janet Yellen e i governatori dei distaccamenti regionali della Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il livello di inflazione negli USA tornerà ad avvicinarsi al 2%. In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.

Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio, ma inizierà a farlo gradualmente sempre in concomitanza con il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti non prima della metà del 2015.

Il giorno dopo l’annuncio della Fed, i giornali americani si sono interrogati sull’utilità del “quantitative easing” e sulla corrispondenza alla realtà del paese del contenuto delle dichiarazioni ufficiali diffuse per motivare lo stop al programma di acquisto titoli.

Il comunicato formale della Fed è in effetti un concentrato di cinismo e tentativi di dipingere un quadro economico decisamente più roseo di quello reale. In particolare, le dichiarazioni rilasciate mercoledì sottolineano sia il “sostanziale miglioramento delle prospettive per il mercato del lavoro” sia la “forza dell’economia in generale”, tale da favorire “l’avanzamento verso il livello massimo di occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi”.

La pretesa che la massiccia infusione di denaro sui mercati finanziari abbia portato a un miglioramento dei livelli occupazionali o delle condizioni economiche della maggior parte della popolazione americana è semplicemente assurda.

L’enorme quantità di denaro stampato dalla Fed - a fronte della continua richiesta di sacrifici a lavoratori e classe media a causa della presunta mancanza di risorse per finanziare la spesa pubblica - ha infatti finito per beneficiare pressoché esclusivamente la speculazione finanziaria, arricchendo gli investitori e senza indurre riflessi significativi sull’economia reale.

Come ha ricordato giovedì il New York Times, il QE della Fed americana ha alimentato una delle strisce più lunghe di aumenti degli indici di borsa nella storia degli Stati Uniti. A partire dal primo round, inaugurato nel novembre 2008, l’indice Standard & Poor’s 500 è salito ad esempio del 131%, mentre dall’avvio del QE3 due anni fa l’impennata è stata di oltre il 42%.

Questa corsa al rialzo ha permesso a quei soggetti in grado di beneficiare dell’andamento positivo delle borse di arricchirsi in maniera spropositata, come conferma il quasi raddoppiamento dal 2009 a oggi dei beni nelle mani dei 400 americani più facoltosi, i quali detengono un totale di 2,9 mila miliardi di dollari.

Complessivamente, la Fed americana e le altre banche centrali nel corso della crisi hanno iniettato nei mercati finanziari una cifra stimata tra i settemila e i diecimila miliardi di dollari, confermando come il “quantitative easing” sia uno dei principali strumenti del trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale messo in atto dalle classe dirigenti dei vari paesi.

La Fed, poi, ha citato la riduzione del numero dei senza lavoro negli Stati Uniti per dimostrare l’efficacia del QE. Se il tasso di disoccupazione è nominalmente sceso dall’8,1% alla vigilia dell’inizio della terza fase del “quantitative easing” nell’agosto del 2012 all’attuale 5,9%, ciò è dovuto in larga misura, come ha dovuto ammettere giovedì anche il Wall Street Journal, all’abbandono del mercato del lavoro da parte di un numero crescente di senza lavoro che non vengono così più conteggiati tra i disoccupati.

Gli impieghi creati, inoltre, risultano oggi in gran parte molto meno pagati e più precari rispetto a quelli svaniti durante la crisi, così come il denaro della Fed, infine, non ha promosso quasi per nulla investimenti produttivi, bensì attività speculative.

Nel consiglio dei governatori della Banca Centrale USA, alla decisione di interrompere il QE3 si è opposto soltanto il numero uno della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, secondo il quale il programma di acquisto di titoli avrebbe dovuto proseguire fino a quando l’inflazione non fosse aumentata in maniera più sostenuta.

La Fed ha comunque fatto sapere di essere pronta a riprendere il QE nel caso la situazione dell’economia dovesse nuovamente volgere al peggio, ritornando così sui propri passi come aveva già fatto dopo l’annuncio della fine dei primi due round del programma.

Se, come già ricordato, lo stop al QE3 non ha provocato scossoni in Borsa, in molti prevedono invece gravi turbolenze nel momento in cui la Fed deciderà di far salire i tassi di interesse, visto che l’eliminazione dell’ultima stampella della Fed costringerà l’economia USA a camminare sulle proprie gambe, probabilmente senza esserne in grado.

Anche se appoggiate dapprima dall’amministrazione Bush e successivamente da quella Obama, le iniziative della Fed sono viste con apprensione da molti all’interno della classe dirigente americana, soprattutto per i timori che esse abbiano contribuito alla formazione di una bolla che potrebbe esplodere in maniera ancora più rovinosa di quella dei sub-prime.

Ciononostante, i vertici politici e finanziari negli Stati Uniti come in Europa e in Asia sono da tempo a corto di ricette alternative per soccorrere un sistema capitalistico in crisi strutturale. Perciò, in concomitanza con l’abbandono del “quantitative easing” da parte della Fed, questo stesso programma di sovvenzionamento della speculazione continua a essere implementato dalla Banca Centrale del Giappone ed è stato da poco inaugurato, sia pure per il momento in una versione ridotta, dalla BCE di Mario Draghi.

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