di Carlo Musilli

Tra François Hollande e Angela Merkel, l’altro ieri a Milano per il vertice Ue sul lavoro, ha prevalso l'etichetta istituzionale. Dalla Cancelliera è arrivato perfino un accenno di apertura: "Ci sono Paesi che devono lottare per rispettare il patto di stabilità siamo pronti a discutere modifiche da portare al sistema per l'uso dei fondi europei" ha detto. Il Presidente francese, da parte sua, ha svicolato sui conti pubblici, affermando che il suo Paese "rispetterà gli impegni presi", ma anche che intende avvalersi di "tutti i margini di flessibilità possibili".

Formalità a parte, in queste settimane il filo che lega le due principali economie dell'Eurozona è sottoposto a una tensione mai così alta negli ultimi anni. Il caso è scoppiato a inizio mese, quando il governo francese ha annunciato nella legge di stabilità 2015 che il rapporto deficit-Pil si attesterà quest'anno al 4,4%, per poi calare al 4,3% il prossimo, al 3,8% nel 2016 e infine al 2,8% nel 2017. La riduzione entro il limite del 3% imposto dal Trattato di Maastricht avverrà quindi con due anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia pattuita con l'Europa.

Non hanno chiesto il permesso, lo hanno deciso e basta: "Il ritmo di riduzione del deficit è adeguato alla congiuntura - ha scritto il ministro delle Finanze, Michel Satin -. Non saranno richiesti altri sforzi ai francesi: il governo, pur mantenendo la responsabilità sul bilancio necessaria a tenere il Paese sulla giusta rotta, rifiuta l'austerità".

Parole a cui Merkel, in prima battuta, ha replicato con la solita, odiosa metafora scolastica: "Non siamo ancora al punto in cui si possa dire che la crisi è alle nostre spalle. I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere. Il patto di stabilità e crescita si chiama così perché non può esserci crescita sostenibile senza finanze solide". Prima o poi la Cancelliera spiegherà al mondo in base a quale rivelazione mistica uno scostamento di un punto percentuale nel rapporto deficit-Pil possa marcare il confine tra la solidità e lo sfacelo delle finanze pubbliche.

Intanto, le mosse della Francia danno ai Paesi del Sud Europa l'occasione di cementare finalmente un asse contro l'austerità. Se Parigi, Roma, Madrid e Lisbona chiedessero con una sola voce di modificare i Trattati (e non solo "il sistema per l'uso dei fondi europei"), a Berlino non basterebbe l'appoggio di Finlandia e Olanda per mettere a tacere gli oppositori. Purtroppo è difficile che accada, perché - esclusi i francesi - nessuna delle altre vittime di Maastrich ha la forza politica di contrapporsi ai reggenti di Bruxelles.  

Senza nessuno che li sostenga davvero, Hollande e compagni hanno comunque portato le istituzioni comunitarie di fronte a un bivio. Se la Commissione europea aprirà una procedura disciplinare  contro la Francia per lo sforamento del deficit, rischierà di spezzare il legame fra Parigi e Berlino, l'architrave su cui Kohl e Mitterand hanno costruito l'Unione. Se invece la punizione non arriverà, la pistola in mano alla Merkel si scaricherà all'improvviso e a quel punto ogni Paese - forse perfino l'Italia - si sentirà in diritto di anteporre l'interesse dei propri cittadini al vangelo del 3%.

In questo scenario, è quasi struggente la crisi d'identità che sta vivendo Pierre Moscovici, commissario designato agli Affari economici dell'Ue ed ex ministro delle Finanze di Parigi, dunque corresponsabile dell'aumento del deficit francese. "Cosa farò di fronte al mio Paese d'origine? - ha detto la settimana scorsa -. Regole, nient'altro che regole, sono qui per garantire la nostra funzione di controllori del bilancio e se un paese non soddisfa gli obblighi del trattato e si trova sotto procedura come la Francia, io continuerò con la procedura. Direi una bugia se dicessi che sono qui per cambiare le regole di bilancio, io sono qui per applicarle".

In effetti, più che una bugia sarebbe stato un suicidio politico, visto che parlava di fronte all'Europarlamento, la stessa istituzione che deve confermare la sua nomina in Commissione. Su Moscovici, inoltre, si allunga l'ombra del falco finlandese Jyiri Katainen, sostenitore sfegatato del rigore made in Germany, nonché futuro vicepresidente dell'Esecutivo Ue con potere di veto sulle decisioni dei commissari che si occupano d'economia. Le parole dell'ex ministro, insomma, erano più che condizionate.

Una pressione opposta - tutta interna - è invece quella che spinge alla ribellione il nuovo governo di Parigi guidato dal socialista Manuel Valls, che si è insediato a metà settembre lanciando un preciso grido di battaglia: "La Francia decide da sola cosa fare: rifiutiamo l'austerità per difendere i più poveri, ma ci impegniamo comunque a controllare la spesa pubblica".

La verve antirigorista è una scelta praticamente obbligata per un Esecutivo sempre in bilico, che si ritrova a dover gestire una maggioranza impalpabile e un Senato di destra in cui gli estremisti del Front National hanno conquistato per la prima volta due seggi. Forse, per trovare il coraggio di ribellarsi a Bruxelles, era necessario avvistare il mostro del neofascismo all'orizzonte.

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