di Carlo Musilli

Un immenso teatrino per chiudere affari, stringere rapporti e - davanti alle telecamere - friggere aria. Il palcoscenico è a Davos, in Svizzera, dove ogni anno si svolge il World economic forum. L'ultima edizione, la 44esima, si è tenuta la settimana scorsa: gli invitati erano 2.500 tra grandi della finanza e dell'economia, rappresentanti di Stati e di governi.

Per l'Italia, fra gli altri, erano presenti Davide Serra, finanziere amico di Matteo Renzi, Mario Greco, ad di Generali, Paolo Scaroni, numero uno di Eni, Federico Ghizzoni, Ceo di Unicredit, i ministri degli Esteri e del Tesoro Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Hanno timbrato il cartellino anche gli alfieri di Intesa Sanpaolo, Geox, Sace, Illy e Ariston.

Stavolta la friggitoria d'aria voleva manifestare una qualche preoccupazione per il sociale, ma come sempre si è rimasti sul terreno delle dichiarazioni d'intenti, dei progetti aleatori. Nel frattempo, quello che davvero stava accadendo a Davos era la solita celebrazione autoreferenziale dello status quo. Lo stesso che ha prodotto gli squilibri contro cui oggi si finge di combattere.

Mettiamo da parte le tesi complottiste di chi vede nel Wef una misteriosa riunione di malefici burattinai, una sorta di edizione ripulita del tanto romanzato Bilderberg. Quello che conta davvero, a Davos, sono le relazioni fra capitale privato e istituzioni pubbliche: i Ceo e gli alti dirigenti delle multinazionali più ricche volano ogni inverno in Svizzera per capire dove conviene dirottare investimenti e speculazioni, mentre i politici fanno a gara per convincerli a puntare sui loro Paesi. Questo è l'obiettivo fondamentale, il resto è contorno mediatico, fra dibattiti e workshop.

In verità, il Forum di quest'anno ha provato a rifarsi l'immagine parlando di "capitalismo sostenibile" e "responsabile" per "rimodellare il mondo" in ambiti universali come la salute, l'ambiente e il lavoro. Buone intenzioni che stridono con la realtà storica, fotografata da Oxfam in un rapporto pubblicato giusto alla vigilia del Wef. Secondo l' Oxford Commitee for Famine Relief (una confederazione di 17 organizzazioni non governative), sul nostro pianeta appena 85 persone gestiscono una quantità di ricchezza pari a quella detenuta da altri 3,5 miliardi d'individui, oltre la metà della popolazione mondiale.

Una distribuzione delle risorse che difficilmente potrebbe essere più sbilanciata, e che - secondo Oxfam - è stata prodotta dalle élite economiche mondiali facendo pressione sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche. "Il rapporto dimostra con esempi e dati provenienti da molti Paesi che viviamo in un mondo nel quale le élite che detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici - spiega Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International -, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole. Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli".

Stando alle affermazioni di principio, l'ultimo Forum di Davos avrebbe dovuto segnare una svolta per correggere questo sistema. Peccato che in Svizzera non ci fosse nessuno a rappresentare gli interessi di quei 3,5 miliardi di poveri. Erano presenti, invece, i vertici di aziende indagate e/o condannate in varie parti del mondo per reati finanziari e/o fiscali. C'era perfino il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, il cui governo è accusato di corruzione. In effetti è comprensibile, visto che, tra quota di partecipazione e biglietto, il soggiorna a Davos costa più di 50mila euro a persona, creando un indotto per l'economia locale che in pochi giorni vale tra i 25 e i 45 milioni di franchi svizzeri.

Se davvero volessero fare qualcosa per l'altra metà del pianeta, in linea puramente teorica, i leader politici potrebbero costringere le multinazionali globali a versare tasse adeguate ai loro profitti, a pagare in modo dignitoso i dipendenti, a farsi carico di alcuni oneri sociali. Invece conversano amabilmente fra le montagne svizzere, blandiscono i facoltosi manager, stringono mani e sorridono. Il commento migliore a questa prassi ultraquarantennale è forse quello di Boris Johnson: "Davos - sostiene il sindaco di Londra - è una costellazione di ego coinvolti in massicce orge di adulazione reciproca".


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