di Carlo Musilli

Lo spread è sceso, evviva lo spread. Per la prima volta dal luglio 2011, a inizio anno il differenziale italiano è sceso sotto la barriera psicologica dei 200 punti base. L’avvenimento è stato accolto dai vertici del Governo come una promozione della politica italiana da parte dei mercati internazionali. “È una grande notizia, il calo dello spread è frutto di un grande lavoro e soprattutto del sacrifico di tutti gli italiani. Nessuno ha la bacchetta magica, ma l’Italia è nella in giusta direzione”,  ha detto il premier Enrico Letta.

Ancora più esplicito il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, per il quale “lo spread, che a inizio anno si aggira attorno ai 200 punti base, scendendo anche sotto tale soglia indica che i mercati apprezzano l’operato del Governo, il suo impegno per il mantenimento della stabilità dei conti e per l’avvio delle riforme, sia istituzionali sia economiche”.

Da oltre due anni ascoltiamo questo copione. Ma è davvero tutto così lineare? La  situazione politica è un fattore che incide sull’andamento del differenziale, ma non è il solo, né il più importante. Dopo il massimo storico raggiunto alla fine dell'ultimo governo Berlusconi - quando arrivammo a 575 punti base -, con l’esecutivo di Mario Monti lo spread iniziò a scendere in modo considerevole. A incidere in misura maggiore, tuttavia, non furono le riforme dei professori, quanto le misure varate dalla Bce.

Sotto la guida di Mario Draghi, l’istituto di Francoforte inondò di liquidità le banche (che comprarono titoli di Stato speculando sulla differenza dei tassi) e scaricò la pistola in mano agli speculatori promettendo interventi calmieranti sugli spread (Outright Monetary Transactions) in caso di pressione eccessiva da parte dei mercati.

Oggi come allora, non si può non tener conto del quadro finanziario internazionale, anche perché lo spread è una misura relativa, che esprime il rapporto fra i tassi d’interesse sui Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi. Il dato più importante è proprio il rendimento sui nostri titoli pubblici, cioè quanto lo Stato paga per rifinanziarsi, che invece è un valore assoluto e rappresenta il vero termometro cui fare riferimento. Lo spread, di per sé, rischia d’indurre in errore: può scendere anche nel caso in cui i tassi sui Btp aumentino, purché allo stesso tempo i rendimenti sui Bund salgano in misura maggiore.

A inizio maggio dell’anno scorso, ad esempio - poco prima che il nostro Paese uscisse dalla procedura Ue per deficit eccessivo -, il tasso sui  titoli tedeschi era all’1%, mentre quello sui bond italiani si attestava al 3,8%. Oggi, invece, i Bund rendono l’1,9% e i Btp il 3,9%. I tassi sui nostri titoli sono quindi saliti, ma lo spread si è ridotto, perché nel frattempo i rendimenti tedeschi sono cresciuti ancora di più, adeguandosi ai rialzi dei titoli governativi degli Stati Uniti in previsione del tapering.

Questo termine inglese introduce un altro capitolo fondamentale, quello della liquidità. Il tapering - avviato questo mese - è l’operazione con cui la Federal Reserve (la Banca centrale americana) riduce progressivamente il programma di stimoli all’economia (il Quantitative easing), che negli ultimi anni ha liberato un fiume di capitali. Con le abbondanti risorse messe in circolazione dalla Fed, molti investitori si sono resi conto che i titoli di Stato dei Paesi periferici dell'Eurozona - Italia e Spagna su tutti - possono essere dei buoni affari, dal momento che garantiscono tassi d'interesse piuttosto alti, a fronte di un rischio molto meno angosciante rispetto al passato (grazie soprattutto alle mosse della Bce).

Un discorso analogo vale  anche per gli investitori giapponesi, che beneficiano della politica monetaria super-espansiva adottata dalla Bank of Japan. Insieme, soltanto nel 2013, l’istituto centrale nipponico e quello americano hanno immesso sul mercato qualcosa come 1.500 miliardi di dollari.

Una fetta di quel denaro è stata impiegata per acquistare Btp e Bonos, contribuendo così alla discesa dei differenziali di Roma e Madrid. Da tutto ciò si capisce quanto sia riduttivo e propagandistico, se non addirittura fuorviante, presentare lo spread come specchio immediato della salute politica ed economica di un Paese.

Un altro aspetto poco chiaro riguarda il tesoretto che le casse pubbliche dovrebbero mettere da parte grazie alla riduzione dei rendimenti sui titoli di Stato, ovvero ai minori interessi da pagare sul debito. Secondo lo stesso Saccomanni, avremo “a disposizione più risorse per investimenti e per alleggerire il carico fiscale”. Purtroppo, ancora non è chiaro se questo tesoretto ci sarà davvero, a quanto ammonterà e se saremo in grado d'impiegarlo per la crescita.

In primo luogo c’è da considerare l’inflazione: a parità di tassi, più l’indice dei prezzi sale, meno costa pagare gli interessi sul debito, perché il denaro vale meno rispetto a quando si è ricevuto il prestito. Peccato che stia accadendo il contrario: l’inflazione, che l’anno scorso era tra il 2 e il 3%, viaggia ora al minimo storico  dello 0,7%. Quindi ripagare il debito, in proporzione, costa di più. E non è detto che il calo dei rendimenti nel 2014 sia tale da compensare gli effetti del calo dell’inflazione.

Bisogna poi ricordare che l’ultima legge di stabilità metteva già in conto l’abbassamento dello spread sotto i 200 punti base e il calo dei rendimenti sotto il 4%. Tutti i possibili risparmi rientrano quindi nelle previsioni: al contrario, se i tassi tornassero a crescere nel corso del 2014, i calcoli dell’ultima manovra risulterebbero sbagliati.

Un rischio concreto, anche perché - sempre nella legge di stabilità - si prevede che quest’anno il Pil italiano cresca dell’1,1%. Quasi il doppio delle stime di tutti gli organismi internazionali e dell’Istat, secondo cui la crescita si fermerà allo 0,6-0,7%. Se i conti del Governo dovessero rivelarsi troppo ottimisti, l’eventuale tesoretto dovrebbe essere impiegato per tappare i buchi che si aprirebbero nella manovra. Con buona pace degli investimenti e del carico fiscale.



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