di Fabrizio Casari

Il motivetto è sempre lo stesso. Pensioni, sanità, istruzione, insomma il welfare. Quando s'avvicina la discussione sulla legge finanziaria nelle aule parlamentari, alcune parole, alcune facce e alcune scelte sembrano riproporsi ciclicamente, anno dopo anno, come fosse un tormentone teatrale. Vale soprattutto per chi propone le cifre, alte o basse che siano. Quest'anno va particolarmente di moda l'entità. Sì, l'entità della manovra che, ovvio, costituisce già di per sé un indicatore chiaro della sua natura, in assenza di smarcamenti netti dalle politiche sin qui seguite. Si possono, giustamente, nutrire riserve sulla ricaduta sociale e sull'indirizzo "politico" della manovra fin qui annunciata. Le aree d'intervento non sono variabili infinite; il come e dove s'interviene, in che misura e con quali obbiettivi, sono elementi che danno il senso culturale dell'indirizzo della politica economica di un governo; quindi, della natura "politica" del governo stesso. E forse, anzi senz'altro, si può anche pensare che un governo di centrosinistra possa e debba modificare la rotta fin qui seguita. Il centro lo si vede, lo si sente, anche troppo: si tratta solo di capire se anche una sinistra c'è e, se c'è, che cosa dice. Ci riferiamo ovviamente non alle dichiarazioni degli esponenti più o meno autorevoli dei partiti, refrain utile solo alla visibilità dei dichiaratori in servizio permanente effettivo. Frequentatori abusanti di ogni Tg, ingredienti dei panini con cui si forgiano i pastoni, hanno come unica mission quella di bearsi di fronte alla loro faccia sugli schermi televisivi. Per noi, che dei Tg, anche quelli "demimunizzati" siamo vittime, come lo siamo del resto anche delle scelte sbagliate in economia, si tratta di veder aggiungere la beffa al danno.

Quando si chiede cosa dice la sinistra, ci si riferisce a proposte, indicazioni che abbiano insieme il senso di realtà e l'ambizione di cambiarla. Riferirsi solo a quanto contenuto nel programma è giusto, ma rischia di somigliare ad un ritornello stanco: il programma, pur essendo un punto di partenza da considerare, un elemento di coerenza nel rapporto con l'elettorato, non può diventare un Talmud: le variabili sui conti conosciute dopo l'entrata al governo potrebbero aver cambiato (oppure no) previsioni, preso atto delle fanfaronate tremontiane. Gli indirizzi generali dovrebbero però rimanere gli stessi. Ma questi sono l'unica cosa che nel programma abbonda; programma che nessuno ha letto, tanto era lungo e vago. E comunque, in un paese "normale", su un programma si fonda una coalizione, difficilmente avviene il contrario. In Italia, appunto, avviene il contrario.

La legge dei numeri, legge fondamentale in economia e importantissima nella politica, non dà comunque all'economia, né tanto meno alla politica, il carattere di neutralità. Sostenere che di fronte ad una crisi economica o comunque ad una manovra finanziaria si debbano tener presente solo e soltanto l'oggettività dei dati e dei numeri, è una forzatura bella e buona e, comunque, una affermazione che dietro la presunta neutralità, nasconde già un forte indirizzo politico.
Nessuno s'illude sulla natura politica delle scelte economiche: attengono inevitabilmente al quadro di compatibilità del sistema. Ma pur in una economia capitalistica a forte impronta liberista, se una legge finanziaria non è solo una operazione contabile, si possono apportare significative correzioni nei flussi di spesa, nella destinazione delle risorse, nell'individuazione delle aree strategiche d'intervento, nella finalità sociale della manovra economica. Si chiamano, semplicemente, riforme. Strutturali o contingenti, di breve o medio termine, d'impronta culturale innovativa o di scuola, ma riforme.

Ed è proprio di riforme, di tipo keynesiano, il bisogno che si avverte per smaltire l'ubriacatura monetarista. A meno di non pensare che il ciclo economico sia soddisfacente, che i conti siano in ordine e che il futuro sia roseo; a meno di non voler pensare che le scelte sin qui compiute siano le scelte migliori che si potevano compiere, si tratta di pensare quindi a riformare. Si può discutere sul come e sui tempi, cioè sulla prospettiva, ma non si può proseguire solo aggiustando i conti. Perché correggere non basta e correggere male, cioè nella direzione fin qui tenuta, porterà inevitabilmente ad imboccare un tunnel alla fine del quale c'è l'Argentina, non l'Europa. Prendere atto cioè che la legge dei numeri impone la loro correzione, pena default, non significa non poter invertire la marcia - rivelatasi del resto semifallimentare - dell'isterìa monetarista che ha danneggiato, più che sviluppato, il "sistema-Italia".

E si dovrebbero anche riconsegnare al dizionario le parole rubate dalla propaganda, come nel caso della "modernizzazione". Dovrebbe intendersi cammino verso innovazioni tecnologiche destinate al miglioramento dei servizi, alla creazione di nuove opportunità, ma è diventata la parola magica di ogni bocconiano o aspirante tale, che scambia il progresso sociale con la libertà assoluta negli affari, che in nome della modernità chiede un mercato del lavoro medievale, che scambia il modello di società con quello delle società quotate.

Una politica economica seria dovrebbe poter parlare di un nuovo assetto economico del paese, con annesse nuove relazioni industriali. Dovrebbe parlare di rilancio della domanda interna e dell'export, di regolarizzazione del mercato del lavoro che riporti in vigore le leggi dell'economia sociale invece di quelle della giungla. Di recupero del potere d'acquisto dei salari e di modifiche nel senso progressivo del sistema di garanzie e diritti. Di risanamento dei conti attraverso scelte di politica economica nette, tipo lo scorporo dell'assistenza dalla previdenza come indispensabile elemento di rientro del deficit pensionistico. E, perché no, di decidere se la crisi dell'occupazione va affrontata incentivando le assunzioni o legittimando finanziamenti italiani ad aziende che esportano gli impianti all'estero mentre il costo degli esuberi lo paghiamo noi.

Di aiuti a pioggia e accordi alle imprese che li capitalizzano in Borsa invece che nell'ammodernamento degli impianti. Di recupero dell'evasione fiscale che, da sola, copre l'importo dell'interesse sul debito. Di una legge sul capital gain che riduca sensibilmente l'attrazione per le speculazioni borsistiche a danno della produzione di beni e servizi. Di una riforma strutturale del sistema bancario. Dell'edilizia abitativa. Dovrebbe parlare, una volta per tutte senza vergogna, di ruolo dello Stato nell'economia, anche solo a partire da quello regolatore. Di risorse strategiche e di scelte conseguenti. Su questo la sinistra, che dice? Davvero limitare l'entità della manovra è la sola ricetta possibile? La riduzione del danno è elevata a prospettiva?

Siamo certi che, se si delineassero manovre di aggiustamento dei conti in stretta relazione con programmi riformatori, la discussione sull'entità passerebbe di moda e anche le misure finanziarie destinate alla copertura del disavanzo avrebbero, una volta tanto, un altro sapore. Discutere di questo sarebbe già una prima riforma, quella indispensabile per liberarci dalla finta neutralità e dal vero chiacchiericcio. Prenderebbe corpo un dibattito molto più interessante: tema, il futuro del nostro Paese.

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