di Stefano Bertone*

Come la maggioranza degli avvocati italiani in queste calde settimane d'estate seguo la questione delle "liberalizzazioni". Intervengo su Altrenotizie premettendo che sono un civilista che si occupa esclusivamente di danni alla persona, per cui commenterò in quest'ottica le modifiche introdotte. Siccome un'ombra di "qualcosa di sinistra" in questo decreto c'è, spiegherò dove e perché ci vedo del buono, dove invece credo che manchino ulteriori affondi, e motiverò la mia lontananza dagli attacchi che l'avvocatura istituzionale vi sta portando attraverso la proclamazione di 10 giorni di sciopero delle udienze. Partiamo dal testo del d.l.: all'art. 1 si fa riferimento all'art. 3 della Costituzione e si parla di "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". Trovo importante che si parta dal pilastro dell'uguaglianza e si considerino esplicitamente diritti civili e diritti sociali, perché questo serve a misurare - quantomeno sulla carta - la rilevanza dell'intervento. Ma è nell'articolo 2 che si tocca più da vicino la professione dell'avvocato.
Veniamo all'articolo 2 (Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali), quello che riguarda più da vicino la professione d'avvocato.
"Dalla data di entrata in vigore del presente decreto -si legge nel testo - sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:

a) la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;
b) il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e il prezzo delle prestazioni".

Lavorando nel campo dei danni alla persona, ho avuto modo più volte di constatare che molto spesso per i danneggiati l'accesso alla giustizia è innanzitutto un fattore di possibilità economiche. E' in questo senso che voglio ragionare. Non mi interessa parlare egoisticamente di chance in più o in meno per gli avvocati (la nostra è la corporazione più forte, la più rappresentata in Parlamento, probabilmente la meno amata dal pubblico) ma di diritti (civili) in più o in meno per le vittime. E dal mio punto di vista non c'è dubbio che l'introduzione del contingency fee agreement (cioè l'eliminazione del divieto di patto quota lite), l'eliminazione dei minimi e la possibilità di informare il pubblico sull'esistenza di iniziative giudiziarie costituiscano un consistente diritto in più. Ancora non basta, come dirò, ma può essere un buon inizio.
Prendete un uomo che resti danneggiato irreversibilmente da un farmaco difettoso. Che il produttore danneggiante sia una delle maggiori industrie farmaceutiche del pianeta. E che il danneggiato non abbia un reddito sufficiente a pagare le spese legali del proprio avvocato. Che fa?
Perché dovrebbe essere sbagliato creare una sinergia tra cliente e difensore nella quale quest'ultimo affronta il rischio di non essere pagato e il primo gli accorda una parte dell'eventuale somma risarcita? Perché dovrebbe essere disdicevole dire al cliente che non si percepirà nulla da lui se la causa non avrà un risultato favorevole? Perché dovrebbe essere sbagliato mettere a disposizione di altri danneggiati nella medesima condizione l'informazione sull'esistenza di contenziosi per quel tipo di farmaco, in modo da dar loro la possibilità di parteciparvi o meno? Perché dovrebbe essere disonorevole comunicare ai potenziali clienti le condizioni economiche degli accordi?

Vediamola in un altro modo: è forse giusto - come sta capitando sempre di più in questi ultimi anni - che il danneggiato abbandoni la sua terra, il suo sistema giudiziario e vada a riparare in porti stranieri, dove questi schemi esistono? Posso dire con cognizione di causa che a partire dal 2003 un gruppo di centinaia di italiani danneggiati da farmaci difettosi sta agendo negli U.S.A. non soltanto perché lì hanno sede i convenuti, ma anche perché ciascun ricorrente ha potuto stipulare accordi di contingency fee e di no win no fee ( non si paga l'avvocato in caso di sconfitta ) con i loro avvocati statunitensi: qui in Italia non sarebbe stato lecito.
Non credo che alla luce dei diritti costituzionali esista un solo motivo valido di opporsi a questi schemi che peraltro sono iper-collaudati in altri sistemi giudiziari. Inoltre: dalle comunicazioni del Governo è apparsa la volontà (rivoluzionaria, mi sento di dire) di introdurre finalmente anche in Italia l'azione collettiva, la class action attualmente prevista in USA, Canada, Australia, Brasile, Cina, Indonesia, Svezia e Francia, tanto per fare degli esempi. Se e come ciò avverrà è ancora un'incognita, ma il principio è giusto e va di pari passo con l'abbattimento dei minimi tabellari e del patto quota lite.
Eppure la comunità degli avvocati ha dimostrato il suo carattere fortemente corporativo, chiuso e conservatore insorgendo contro il decreto con la medesima veemenza dei tassisti. Il Consiglio Nazionale Forense ha dichiarato uno stato di agitazione di 10 giorni a luglio e ha addirittura invitato il Presidente della Repubblica a non firmare il D.L., neanche si fosse trattato della obbrobriosa legge Cirami.

Condivido il risentimento per il taglio agli stanziamenti per la giustizia, così come (ad esempio) trovo sbagliato l'aumento del costo del contributo unificato per i procedimenti davanti al TAR, ma non concordo sul resto. A partire dal fatto che, secondo quanto sostiene l'avvocatura, questo decreto sarebbe una sorpresa.
Il CNF dichiara in un suo comunicato del 30 giugno che "il programma elettorale dei Democratici di sinistra, confluito in quello dell'Unione, non conteneva affatto propositi destabilizzanti del sistema delle professioni quali quelli che si profilano in queste ore"- Eppure, per dirne una, il presidente della Cassa nazionale forense, Maurizio de Tilla, nell'inverno passato, dichiarandosi "contro l'abolizione degli albi e dei minimi di tariffa, e …contro la liberalizzazione selvaggia dell'accesso alla professione e l'introduzione della pubblicità commerciale" riconosceva sia il favore di Prodi a innovazioni in questa materia, sia che Bersani, in un'intervista, avesse dichiarato: "Inizieremo con il togliere le tariffe minime e il divieto di pubblicità, e aprendo alle società professionali". Dunque non si può dire che il decreto Bersani sia arrivato come un fulmine a ciel sereno: forse non era nel programma elettorale, ma quella dichiarazione era chiarissima e conosciuta.

Ma soprattutto non condivido le ragioni di merito di questa opposizione: proprio non vedo dove stiano le "violazioni di diritti e prerogative anche costituzionalmente protetti", e non lo vedo perché il CNF non aiuta a capirlo. Non ho trovato motivazioni specifiche. Si parla di un decreto che "penalizza gravemente gli avvocati e i cittadini" - faccio notare che qui altruismo e egoismo curiosamente si mischiano - e che sopprimendo le tariffe forensi "avrà l'effetto di aumentare i costi di accesso ai tribunali e di favorire le disuguaglianze". Ma non si trova un perché. Basterebbe anche un solo motivo, ma non mi pare che i comunicati stampa li elencassero. Di motivazioni (le solite, nulla di nuovo) ce ne sono invece contro le modifiche in tema di pubblicità: "La soppressione dei limiti alla pubblicità avrà inoltre l' effetto di consegnare l' Avvocatura al mercato, a dispetto della dignità e della competenza. Il danno arrecato al Paese dal decreto-legge sarà dunque irreparabile". L'equazione pubblicità=minor competenza, può valere solo per chi non ha interesse all'aggiornamento professionale: se io so di dover affrontare determinati giudizi, e riconosco che l'obiettivo primario è quello di ottenere il risarcimento del danno del mio assistito, l'aspetto pubblicitario costituirà solo un accessorio "parallelo" e non intaccherà la serietà del mio lavoro. La sostanza prevale sulla forma. Al contrario, vietare la pubblicità (che per me vuol dire soprattutto comunicazione, cioè rendere noto) significa impedire a schiere di cittadini di essere consapevoli dei propri diritti.

Per l'avvocatura istituzionale tuttavia non ci sono vie di mezzo: il CNF infatti "si dichiara disponibile a definire con il Ministro della Giustizia un testo di riforma della Professione Forense" ma solo "una volta stralciate le parti del Decreto Legge che riguardano le professioni". Altrimenti, si legge nell'appello rivolto al Capo dello Stato si rivolgerà "alla Corte di Strasburgo perché siano difesi i diritti fondamentali dei cittadini italiani pregiudicati da misure asseritamente liberalizzanti ma in realtà portatrici di disuguaglianza sociale". Ma secondo voi, sempre che decidesse di farlo, quanto ci impiegherebbe il CNF a dibattere al proprio interno un testo di riforma, che andrebbe poi presentato al Governo? Anni? O decenni? E nel frattempo tutto resterebbe come prima? Certamente sì. Il che mi fa dubitare della genuinità degli interessi di chi vuole bloccare il decreto: perché così facendo si tutela chi desidera che le cose restino come sono oggi. Un momento in cui, tanto per rimanere in tema di danni, sostanzialmente il cosiddetto tort feasor, il danneggiante, la scampa sempre. Allora, se vogliamo parlare in modo sensato di valori e di tutela, dobbiamo riconoscere che la Costituzione obbligatoriamente impone che esista per tutti l'effettivo diritto di difesa, cioè il diritto di tutelare i propri diritti lesi: nel campo di cui mi occupo io questo significa che il danneggiato, vittima di un fatto illecito di un terzo, deve avere prospettive concrete e avere un caso in tribunale.

Ma se il nostro sistema giudiziario, i limiti agli accordi tra clienti e avvocati e la disparità di valori in causa comportano sacrifici economici che non possono essere affrontati dai deboli (che quindi rinunciano a far valere i diritti in giudizio), o li tengono all'oscuro di informazioni rilevanti di tipo sociale; e se dunque questo nostro sistema per più ragioni non vuole prendersi cura di questi casi, vogliamo dire che l'alternativa dovrebbe essere quella di non garantire l'accesso alla giustizia tout court? Vogliamo dire che una regola suppostamente etica a tutela dell'onorabilità della professione d'avvocato (divieto del patto quota lite) dovrebbe prevalere sul diritto sostanziale e assoluto di masse di persone a tutelare i loro diritti nei confronti di avversari che fanno della prepotenza e della superiorità economica un dato di fatto?
Per me la risposta è una sola . Ed è no.

Avevo promesso di parlare di quello che nel decreto non funziona. Ribadisco ancora una volta che la mia analisi è strettamente limitata all'aspetto tecnico in ambito di danni alla persona. Ritengo che affinché un vero sistema di tutela della parte debole funzioni, dal punto di vista prettamente tecnico all'azione collettiva e all'abbattimento dei minimi e del divieto di patto quota lite, vada aggiunto, l'abbattimento del principio della soccombenza; cioè evitare che siano poste a carico della parte debole che perde la causa le spese di lite della parte forte vincente. La soccombenza rimane uno spauracchio determinante per le vittime e qualche riforma del codice di procedura civile dovrà essere introdotta anche in questo campo.

Concludo dicendo: non toccate la sostanza della riforma, non toccate l'abolizione dei minimi e del divieto di patto quota lite, non toccate l'abolizione del divieto di pubblicità, perché sono misure che facilitano l'accesso alla giustizia dei soggetti deboli. E partendo da questo punto, miglioratele e rendetele ancora più forti. Rimangiarsi il decreto vorrebbe dire tornare indietro di 30 anni e garantire al potere economico dei grandi danneggianti altri lustri di dominio incontrastato ed ingiusto, alla faccia dei diritti civili e del principio di uguaglianza contenuto nel nostro articolo 3 della Costituzione. A luglio, naturalmente, non prenderò parte alle "agitazioni".

*avvocato civilista

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