di Agnese Licata

Ryszard Kapusciski, in uno dei suoi libri sui mille volti dell’Africa, nati dalla volontà di dare voce a chi voce non ha, descrive la vita di una donna africana. Una donna come tante, povera come la maggior parte delle donne africane, in una delle immense periferie delle città africane dove la speranza di una vita migliore non esiste. La penna del giornalista (che ha alle spalle quarant’anni di viaggi nei Paesi in via di sviluppo) si ferma sull’unico oggetto che questa donna possiede e che la rende, a suo modo, privilegiata. Si tratta di una comunissima pentola, vecchia e malandata, oggetto apparentemente insignificante, ma fonte di un piccolissimo reddito. Quanto basta per fare la differenza tra sopravvivere faticosamente e morire lentamente. Basterebbe anche solo questo esempio per rendersi conto dell’enorme baratro che divide Nord e Sud del mondo e quanto il concetto stesso di ricchezza possa essere diverso. Negli scorsi giorni, l’Istituto mondiale per la ricerca sullo sviluppo economico (interno all’università dell'Onu) ha provato a quantificare concretamente questa disuguaglianza. In ballo, non c’è “solo” il problema economico e politico di un sistema globale totalmente squilibrato a favore di pochi Paesi occidentali, che vive e si sostiene impedendo a tutto il resto del mondo di svilupparsi (ad esempio, attraverso un assistenzialismo fatto per distruggere più che aiutare le già deboli economie locali).
In ballo c’è la vita della maggior parte della popolazione mondiale, perché quando diventa difficile - se non impossibile - soddisfare anche i propri bisogni primari, ogni uomo viene privato della libertà di scegliere e determinare il proprio destino.

I dati diffusi dall’Università dell’Onu parlano chiaro: rappresentando tutta la popolazione mondiale attraverso un gruppo di dieci persone e riducendo a 100 dollari l’intera ricchezza mondiale, un solo individuo finirebbe per disporre di 99 dollari, mentre i restanti nove dovrebbero spartirsi l’ultimo dollaro. Stati Uniti, Giappone ed Europa hanno infatti in mano l’84% di una ricchezza mondiale che l’Istituto quantifica per il 2000 in 125 trilioni di dollari. Da sola, l’America del Nord dispone del 34% della ricchezza, nonostante conti solo il 6 per cento della popolazione. Il resto della torta va invece divisa tra i continenti e i Paesi più popolosi del mondo: America Latina (4%), Cina (3%), resto dell’Asia (3%), Africa (1%) e India (1%). Il risultato di questo squilibrio sulla popolazione mondiale è probabilmente più grave di quanto ci si potesse aspettare: appena il 2% delle persone più ricche del mondo possiede più della metà di tutta la ricchezza e basta salire al 10% per arrivare all’85% della ricchezza totale. Più nel dettaglio, 37 milioni di persone (pari appena all’1% della popolazione) possono disporre del 40% dei patrimoni. E mentre 37 milioni d’individui vantano, singolarmente, proprietà finanziarie e materiali per più di 500mila dollari, sono miliardi coloro che non possiedono proprio nulla. La metà della popolazione più povera, infatti, è costretta a spartirsi l’1% della ricchezza mondiale.

Per capire fino in fondo il valore di questo studio, bisogna precisare che non sono stati considerati i redditi nazionali e pro capite, come è stato già fatto in molti altri studi. Per la prima volta, si è invece scelto di quantificare una ricchezza più a lungo termine, che comprende proprietà fisiche e finanziarie. A questo valore, vengono poi sottratti i debiti personali. Quelli che in gergo economico sono definiti assets, essendo fonte di piccole rendite, svolgono un ruolo di protezione contro i tempi in cui il reddito, improvvisamente, diminuisce (per disoccupazione, malattia o vecchiaia). Se questa sorta di assicurazione fosse distribuita in modo equo tra tutti, la media pro capite sarebbe di 20.500 dollari. La realtà dice invece che uno statunitense medio può vantare 144mila dollari, un giapponese addirittura 181mila, mentre in India la ricchezza pro capite non va oltre i 1.100 dollari. Proprio così: 181mila contro 1.100 dollari.

Dietro la tanta ricchezza dei Paesi occidentali, c’è però anche un’altra povertà. Non solo quella dei Paesi in via di sviluppo. C’è una povertà tutta interna ai confini nazionali, una disuguaglianza che deriva, ancora una volta, dalla concentrazione della ricchezza in poche mani. Basti pensare che il 10% degli americani possiede il 70% dei patrimoni totali del paese. Percentuale che scende progressivamente per Francia (61%), Inghilterra (56%), Germania (44%) e Giappone (39%).
A questo va aggiunto, come si legge nel rapporto, che “molte persone nei Paesi più sviluppati hanno patrimoni negativi (cioè hanno più debiti che altro, ndr) e, paradossalmente, risultano essere fra gli individui più poveri del pianeta in termini patrimoniali”. Nei Paesi in via di sviluppo, del resto, raramente esiste un sistema creditizio e, qualora esistesse, difficilmente permetterebbe a chi non ha proprio nulla di indebitarsi. Solo esperienze come quelle del microcredito danno la possibilità a molti di uscire dalla povertà più assoluta. In ogni caso, anche se essere poveri in Occidente può, nei numeri, essere peggiore che esserlo in un Paese in via di sviluppo, è presumibile che la loro condizione dal punto di vista dei consumi sia migliore.

L’assurda disuguaglianza che i dati dell’Istituto mondiale per la ricerca sullo sviluppo economico mostrano, più che ridursi, rischia di peggiorare sempre di più; perché, come spiega Sherman Katz (un esperto di sviluppo economico intervistato da La Stampa) “l’incremento della ricchezza nell’era della globalizzazione favorisce coloro che già possiedono importanti capitali”.
È su questo che si basa il presunto successo dell’attuale sistema economico. E anche la sua crisi di prospettiva.

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