di Agnese Licata

Negli ultimi tempi non si è davvero persa neanche un’occasione per discutere di biocarburanti, etanolo e simili. Dal 7 all’11 agosto Luiz Inacio Lula da Silva e Ugo Chavez hanno visitato otto Paesi dell’America Latina con l’obiettivo non solo di estendere il Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale), ma soprattutto con quello d’incentivare la produzione di etanolo, in modo da ridurre la dipendenza del continente dalle importazioni energetiche. Per tutta risposta, in un vertice a tre, i membri del Nafta - Stati Uniti, Canada e Messico - si sono impegnati a collaborare per sviluppare “tecnologie per la produzione di energia pulita”. Lunedì scorso, il giorno prima dell’apertura a Brasilia del terzo Foro della cooperazione America latina-Asia dell’Est (Focalae), gli imprenditori delle 33 nazioni aderenti hanno avuto parole di elogio per il futuro dell’etanolo brasiliano, ottenuto principalmente dalla canna da zucchero. A stemperare le tante speranze del settore, durante la “Settimana mondiale dell’acqua” svoltasi a Stoccolma dal 12 al 18, il Siwi (Stockholm International Water Institute) ha lanciato l’allarme: se si va avanti di questo passo, aumentando i campi destinati a produrre carburante, la richiesta di acqua per l’agricoltura potrebbe anche raddoppiare nel giro di pochi anni, mettendo in seria difficoltà un sistema idrico già fortemente compromesso da inquinamento, dighe, canali d’irrigazione e desertificazione. Allarme che si va ad accodare ai tanti dubbi sul conseguente aumento dei prezzi dei cereali usati per l’alimentazione (umana e animale), aumento che si è già verificato nell’ultimo anno. I dubbi rimangono nonostante martedì scorso la Commissione europea abbia divulgato uno studio a dir poco tranquillizzante proprio sugli effetti che l’estensione dei campi destinati all’etanolo avrà sui prezzi e sulla reperibilità delle materie prime alimentari.

Il dibattito, insomma, è sempre più acceso e controverso. In un momento in cui il problema dell’effetto serra e, soprattutto, dell’aumento del costo del petrolio è diventato pressante, governi e grandi multinazionali sembrano privilegiare i biocarburanti tra le varie forme di energia alternativa. Peccato che si tratti proprio di quelli in cui è più difficile stabilire da che parte pende la bilancia: sono maggiori i vantaggi per l’ambiente o, diciamo, gli “effetti collaterali”?

Certo, anche fonti come l’eolico, il solare, le biomasse hanno i loro costi e svantaggi: impatto paesaggistico, necessità di spazio e poi costi tecnologici e di manutenzione ancora non concorrenziali con quelli del petrolio. Ma utilizzare etanolo per alimentare le auto solleva problemi su più fronti, che, inoltre, assumono sfaccettature diverse a seconda se lo si produca in Europa, Stati Uniti oppure in nazioni come Brasile, Argentina, Cina.

L’etanolo può essere prodotto a partire da sostanze diverse. Le principali sono due: mais e canna da zucchero, alle quali si affiancano oli derivati da semi di girasole e palma africana. In generale, comunque, possono essere usati un po’ tutti i cereali. I quali, grazie al loro basso costo e ampia diffusione, costituiscono la base alimentare della maggior parte dei paesi del mondo. Basti pensare all’ampio uso di farina di mais nei prodotti tipici dell’America latina, o di soia nell’Estremo Oriente.

Il risultato di una politica che punta a estendere la produzione di biocarburanti è una concorrenza con il bene primario per eccellenza: il cibo. Una concorrenza che già nell’ultimo anno ha fatto salire di molto la domanda di cereali e, quindi, come insegna la prima regola dell’economia, anche i prezzi. Il mais, oggi, costa il doppio di un anno fa.

Una situazione che piace molto agli agricoltori statunitensi, soprattutto quelli della zona centro-occidentale, da sempre specializzati in cerealicoltura. Nel mais “energetico”, infatti, gli Usa (ma anche i Paesi Ue) vedono la possibilità di rilanciare un’agricoltura depressa. Non per niente il presidente George W. Bush ha predisposto una serie di sussidi e aiuti economici alle aziende agricole che scelgono di produrre mais per etanolo invece che per l’alimentazione. Grazie agli aiuti economici, che hanno reso molto vantaggioso questo tipo di produzione, solo nel 2006 i campi coltivati a questo scopo sono aumentati del 48%, senza che però queste terre siano state rimpiazzate da campi coltivati a fini alimentari.

Tutto per raggiungere l’obiettivo del “20 in 10”, ossia ridurre l’uso del gasolio americano del 20 per cento entro il 2010. Il piano, presentato a gennaio da Bush durante il discorso sullo stato dell’Unione, prevede che la produzione di biocarburante raggiunga i 133 miliardi di litri l’anno entro il 2017. Gli effetti si vedono già adesso. Non solo sui prezzi dei cereali, ma anche sulla riduzione delle scorte alimentari, mai così basse.

In apparenza, questi sembrano problemi che non riguardano l’Occidente, così ricco di tutti i prodotti immaginabili e comunque sempre più “carnivoro”. E invece, a guardar bene, le cose sono diverse. È infatti molto probabile che la ridotta produzione di cereali per animali possa portare all’aumento del costo della carne. Bisogna infatti considerare che tra le nazioni che maggiormente stanno puntando all’etanolo, ci sono Brasile e Argentina, paesi con il più alto tasso di carni esportate.

Del resto, se si esclude – molto ottimisticamente – che i nuovi campi da destinare alla canna da zucchero vengano ottenuti bruciando ettari della foresta amazzonica, non restano che i pascoli da sacrificare. Ipotesi che il recente rapporto della Commissione europea non considera neanche, limitandosi ad affermare che non ci sarà alcun aumento dei prezzi della carne perché a sopperire alla minor offerta di cereali ci saranno mangimi più convenienti, che sfruttano l’economicità dei biocarburanti.

Ma qui arriva una delle domande centrali: è così conveniente bruciare etanolo miscelato al gasolio? Da più parti si solleva il problema dell’efficienza di questa fonte energetica, secondo alcuni addirittura meno efficiente del 25 per cento rispetto ai combustibili fossili. Questo spiegherebbe perché multinazionali del petrolio come la ExxonMobile o la Bp stanno investendo milioni e milioni di dollari in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie per i biocarburanti.

Proprio a questo scopo, la Bp ha annunciato a maggio l’intenzione di donare 500milioni di dollari all’Università della California. Si tratta della più grande donazione di tutti i tempi. Se si esclude un attacco di filantropia di tale portata, viene il sospetto che i biocarburanti siano più un affare per i privati e per i governi occidentali che per l’ambiente e il resto del mondo.

A questo punto, verrebbe da chiedersi, tanto vale fermarsi al petrolio? Non necessariamente. Le tecnologie delle fonti rinnovabili stanno facendo grandi passi avanti in termini di efficienza ed costi. Tutto sta, però, nel valutare sempre costi e benefici, non puntando tutte le carte solamente su una possibilità.

Il presidente nicaraguese Daniel Ortega, durante la recente visita di Lula a Managua, ha affermato che “è inammissibile e criminale” per il suo paese produrre etanolo dal mais, lasciando una piccola porta aperta al biodiesel da palma africana. A condizione, però, di non estirpare neanche un solo albero per piantarla. Non esiste una soluzione perfetta uguale per tutti. La pretesa americana di coltivare a mais mezzo mondo, non considerando le differenze ambientali ed economiche, rischia di fare più danni dell’effetto serra.

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