In attesa dei fin troppo annunciati dazi doganali che Trump imporrà all’Europa per tentare di riequilibrare la bilancia dell’import/export tra USA e UE, il Vecchio continente discetta sui commissari della ignobile Von der Leyen e annaspa sotto i colpi di una gestione della politica industriale a dir poco infausta. Uno dei settori più colpiti e che rappresenta il perno principale dell’industria europea è quello del automotive ed è proprio qui, oltre che sull’energia, che l’Europa accusa i colpi peggiori. La crisi dell’auto miete vittime anche ai livelli più alti, raggiungendo anche le aziende tedesche. Si tratta di Audi e gruppo Volkswagen, che da sempre hanno rappresentato un’eccellenza in chiave di qualità di prodotto, innovazione tecnologica, assetti produttivi, relazioni industriali e capacità di export. I due giganti tedeschi chiuderanno alcuni stabilimenti che producono auto elettriche in Germania e Belgio.

 

Nello stesso tempo, l’Unione Europea impone dazi pesantissimi sulle importazioni delle auto elettriche cinesi, che sono migliori e molto più economiche di quelle europee. Con i dazi decisi dalla UE, al prezzo delle auto cinesi si dovrà aggiungere circa il 35% in più che verrà presumibilmente sborsato dai consumatori, a compensazione appunto dei dazi che la Cina dovrà pagare per venderle in Europa. Il che, aggiunto al 10% di dazi già esistenti, porterà ad un complessivo 45% del totale il costo doganale delle auto a batteria cinesi. Par di capire che le auto elettriche cinesi in Europa non debbano entrare perché, costando meno ed essendo migliori, rischiano di avere successo e mettere in crisi le sudcoreane, giapponesi e statunitensi.

La decisione non convince tutta la UE. La Germania, insieme ad Ungheria, Slovacchia, Slovenia e Malta hanno votato contro le tasse proposte dalla Commissione, senza però riuscire a respingerle. A favore si sono invece espressi dieci Stati membri, tra cui Italia, Francia e Polonia. Dodici invece gli astenuti, tra cui Spagna e Svezia.

Bruxelles afferma esservi stata un’accurata indagine della commissione anti sovvenzioni che avrebbe rilevato aiuti di Stato alle società cinesi, come se l’Europa non facesse altrettanto sia direttamente che indirettamente attraverso gli sgravi fiscali. La Cina, dal canto suo, sostiene che l’indagine sia viziata da dati non conformi e che in realtà la decisione sia un atto di puro protezionismo europeo. Porterà quindi il caso al WTO e alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Non solo: avvierà indagini sui sussidi Ue ad alcuni prodotti lattiero-caseari e di carne di maiale importati (soprattutto dalla Spagna) ed eventualmente sanzionerà il brandy francese.

Se Pechino adotterà misure ritorsive, il colpo all’export europeo (soprattutto italiano, francese e spagnolo) sarà duro per le ricadute sull’occupazione. Si rischierà in scala molto maggiore quanto avvenuto nell’agricoltura, dove per sanzionare la Russia l’Italia ha perso 3 miliardi di Euro l’anno di export con annessa la perdita di migliaia di posti di lavoro.

Bruxelles bara nella partita. Più che di aiuti di Stato cinesi - che configurerebbero una “concorrenza sleale” (il che fa ridere per una UE che parla di lealtà commerciale mentre emette sanzioni economiche contro diversi paesi) - lo svantaggio europeo nella produzione di auto elettriche si fonda sulla scarsità di investimenti nell’innovazione tecnologica e nei ridicoli incentivi all’acquisto, oltre che sulla scelta di una fascia di costi alti (nessuna ibrida è sotto i 20.000 Euro).

Lo svantaggio con Pechino non si deve (o perlomeno non solo) all’intensità della produzione cinese, ai bassi costi per unità di prodotto e alla capacità di export; semmai è l’area UE che, innamorata di un fallimentare turbo-liberismo, ha smesso di produrre beni affascinata dalla delocalizzazione ed ha sostanzialmente ridotto ricerca e investimenti trovando più conveniente importare che produrre, magari utilizzando le misure unilaterali per trasformare i mercati in arene dove 52 paesi fanno la parte delle fiere e 142 quella dei gladiatori.

I giganti europei dell’auto temono di pagare caro il prezzo dei dazi anti-Cina. Per la lobby automobilistica tedesca (Vda) l'Ue rischia di innescare un "conflitto commerciale" nel quale (ancora una volta) il rischio è che i sanzionatori alla fine si trasformeranno in sanzionati. Rischio forte, dato che alcune delle principali case automobilistiche europee - le tedesche in particolare, ma anche Stellantis e Renault - hanno una forte presenza in Cina e incroci proprietari con le aziende del Dragone, il cui mercato al momento si configura come il più grande al mondo per i veicoli elettrici.

Quindi chiedono un accordo e non uno scontro con la Cina, considerando anche la reciproca presenza negli asset proprietari del settore. Accordi inevitabili, in considerazione del fatto che sempre la UE ha posto per le auto elettriche di ogni marchio l’obiettivo del 25% del venduto complessivo entro il 2025, che non fosse raggiunto comporterebbe multe salatissime per le imprese europee che per questo si alleano ai cinesi.

Questi nuovi dazi seguono le precedenti sanzioni a persone, gruppi e paesi e costituiscono ormai l’essenza delle politiche dell’Occidente Collettivo sui mercati. Seppellito il pur asservito WTO, ci troviamo di fronte ad un approccio piratesco al tema della concorrenza e del libero mercato, che elargisce embarghi, blocchi e sanzioni con i quali l’Occidente batte i piedi sulla testa di 24 paesi, il 73% della popolazione mondiale per crearsi dei vantaggi illegittimi sui mercati e provare a schiacciare la crescita del Sud Globale e dell’Est.

A consuntivo avremo quindi gli USA che ci sanzionano e noi che a nostra volta sanzioneremo la Cina, che certamente risponderà con altre sanzioni. Saremo il vaso di coccio in mezzo ai due vasi di ferro. Ed è superfluo sottolineare come la crisi dell’auto si aggiunge a quella agricola e alla crisi energetica. Tre elementi fondamentali che stanno determinando da anni la fine delle politiche di crescita europee.

Si riscontra purtroppo una totale assenza di strategia per ricostruire una dimensione produttiva europea che risani, almeno parzialmente, le ferite profonde di una crisi sociale e occupazionale senza precedenti, che colpisce l’11% (dato formalmente registrato, ma la realtà indica numeri molto maggiori) della popolazione europea. Non c'è nessuna politica di contenimento delle diseguaglianze e di protezione de settori più colpiti dalle (non) scelte industriali europee, anzi si ribadisce un cammino che porta direttamente fuori strada.

E’ parte del suicidio iniziato con le sanzioni alla Russia, che ha portato il costo dell’energia a livelli mai nemmeno ipotizzati nei peggiori scenari, ha trasformato la locomotrice tedesca in un triciclo e, di conseguenza, ha ridimensionato tutta la filiera industriale europea che poteva contare su margini importanti proprio grazie al basso costo dell’energia. Per piazzare il loro gas di qualità e volumi inferiori ma a prezzo decisamente superiore, gli USA hanno obbligato la UE alla rottura commerciale con Mosca ed oggi, per attaccare l’altro nemico strategico di Washington, la Cina, obbligano la UE a questa nuova crociata suicida. Il tutto nel nome del famoso sistema di regole per le quali una colonia, per estesa e ricca che sia, resta sempre una colonia.

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