di Sara Nicoli

Diciamo subito che non appena abbiamo visto sul "Gazzettino" di Venezia la foto del piccolo Hevan, il bimbo mai nato, ucciso dal padre nella pancia della sua mamma soffocata viva, l'istinto ha avuto la meglio sulla ragione, facendoci ripiegare velocemente il giornale per non essere più costretti ad incrociare quel volto per un solo minuto di più. Ma, come per ogni choc che si rispetti, l'immagine di quel piccolino ci ha inseguito per l'intera giornata, riproponendosi come una ferita fresca, un dolore sordo e sottile, possibile da rimuovere solo con un profondo sforzo di elaborazione sulle ragioni che hanno spinto i genitori della giovane assassinata a concedere le foto al giornale; e sul perché il direttore di quest'ultimo, Vittorio Pierobon, ha deciso di sbatterla in prima pagina. Sulle ragioni dei genitori non ci soffermeremo: impossibile chiedere lucidità e ragionevolezza a chi è stato appena colpito così duramente negli affetti più cari. Sulla mascalzonata giornalistica del primo quotidiano del bianco Veneto, invece, la riflessione ci sembra doverosa. In un fondo intitolato "Il volto dell'angioletto" Pierobon spiega i suoi motivi, legati almeno in apparenza alla volontà di dare seguito ad una preghiera della famiglia. Ma leggendo bene, si scopre anche un altro risvolto, davvero inquietante e, a nostro giudizio, condannabile ancora di più della oggettiva violazione di ogni regola sul diritto di cronaca. "La foto che pubblichiamo - si legge nell'articolo - è la prova che Hevan non era un feto, anche se tecnicamente così andrebbe chiamato, perché in caso di parto prematuro sarebbe stato in grado di sopravvivere; un distinguo tra feto e bambino che presumibilmente sarà materia di dibattito nelle aule di tribunale". Probabilmente anche altrove. Con la foto, il direttore del "Gazzettino" ha fatto anche un intervento a gamba tesa sul nuovo e tragico dibattito che riguarda la possibile revisione della legge sull'aborto. E' indubbiamente vero che quel piccino è stato ucciso dal padre e che la sua possibile sopravvivenza in caso di parto prematuro potrebbe farlo condannare per duplice omicidio volontario anziché "solo" per aver sepolta viva sua madre, ma questo - rispetto all'uomo di cui si parla - è abbastanza irrilevante al fine della condanna morale. Grave è che, invece, il direttore di un giornale abbia voluto scuotere, in modo pericolosamente subliminale, il fuoco che arde sotto la cenere del revisionismo religioso sulla 194. "Jennifer - scrive ancora il direttore - non ha mai voluto abortire, è morta perché voleva quel figlio, mentre lui voleva essere sicuro di cancellare quella creatura". Lo stereotipo della madre martire uccisa perché voleva il suo bambino mentre lui, il padre cattivo, voleva continuare a vivere la sua doppia vita di fedifrago senza responsabilità è completo. Ma anche riduttivo ed offensivo. Non sappiamo se Jennifer sarebbe davvero ancora viva se avesse deciso di abortire e non vogliamo neppure interrogarci su un'eventualità che non si è verificata. E'davvero volgare strumentalizzare le possibili ragioni di un delitto così efferato per portare avanti machiavelliche disquisizioni su "feti morti" e "bambini mai nati" nonché sulle ragioni del non aborto. Tanto volgare da aver convinto l'intera redazione del Gazzettino, dopo aver letto l'editoriale del direttore, a dichiararsi contraria alla pubblicazione della foto. Il direttore, comunque, è andato dritto per la sua strada, tant'è che ieri sia lui che il suo vice, dopo un'attenta lettura del fondo, sono stati immediatamente espulsi dalla Federazione Nazionale della Stampa, il sindacato dei giornalisti. La violazione delle primarie regole deontologiche è indubbia, in questo caso. Ma l'aggravante di aver voluto artificiosamente creare sconcerto intorno all'immagine di un "non nato" per fini senz'altro poco giudiziari, men che meno cronistici, ma molto politico-religiosi ha fatto giudicare il gesto ancora più esecrabile. Ritornando al fatto, la pubblicazione della foto, crediamo comunque che si tratti di una gravissima offesa alla dignità di una persona. "Quella creatura estratta dal ventre della povera ragazza assassinata - ha spiegato uno dei componenti del Garante della Privacy, Mauro Paissan - offende i lettori, ma soprattutto la dignità di quel bambino. E il giornale non può nascondere la propria responsabilità dietro il fatto che siano stati i nonni a fornire la foto. La dignità di un cadavere non è nella disponibilità dei familiari". Eppoi, chi lo ha detto mai che esiste il diritto di sbattere in pagina quello che si vuole? Pubblicare foto raccapriccianti e impressionanti non è diritto di cronaca: è un reato. Ma pare proprio che qualcuno abbia perso il senso del pudore, proprio e degli altri, il senso della misura e della responsabilità. Perché certe cose, come ha voluto sottolineare duramente il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, " bisogna pensarle e capirle, non ha senso mostrarle così".

Ma per quanto ci si possa sforzare nella condanna, prima o poi ci sarà un altro Pierobon e un altro Gazzettino pronti a superare, nel nome delle copie vendute e della possibile pubblicità, seppur negativa, derivante dall'onda polemica, l'asticella del rigore etico e del rispetto della persona nei media. Crediamo, in coscienza, che l'unico modo di disinnescare questa drammatica spirale al rialzo dell'orrore sia di rispolverare una verità antica - e mai smentita- nel campo della comunicazione mediatica: come diceva Mc Luhan "al terrorismo si risponde anche staccando la spina". Che qualcuno provveda a staccarla subito al direttore del "Gazzettino". Per il bene di tutti.

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