di mazzetta

Le ultime settimane hanno registrato una serie di novità che riguardano l'assetto e il futuro della rete. L'ICANN (l'organismo che regola i nomi dei siti) ha disposto l'introduzione delle denominazioni dei siti con alfabeti diversi da quello latino, l'arabo, il cirillico, il cinese, il giapponese, il coreano, l'ebraico o l'hindi avranno quindi cittadinanza in rete fin dalla composizione dell'indirizzo (o dominio), mettendo fine al monopolio dell'alfabeto latino, una rivoluzione culturale passata per lo più inosservata, la fine del dominio latino sul dominio Internet.

Sembra finalmente destinato a decollare anche l'IPV6, il protocollo internet a 128 bit destinato a sostituire l'IPV4 che di bit ne ha solo 32. Il protocollo IPV6 permette di avere a disposizione una quantità sterminata di nuovi indirizzi (quelli di IPV4 sono prossimi all'esaurimento) e consente un uso ancora più versatile della rete. La penetrazione del protocollo IPV6 è ancora limitata all'uno per cento della rete, ma l'esaurimento della capacità dell'IPV4 costringe ormai a fare di necessità virtù e a muovere verso la nuova frontiera.

Frontiera che registra una vittoria sul fronte della neutralità della rete, la pretesa di alcuni operatori professionali di costituire corsie preferenziali per certi tipi di traffico (in genere quello commerciale in senso stretto) e punitivo per altri (in genere il file-sharing) ha subito una brusca sconfitta su tutta la linea, la neutralità della rete è stata quindi riaffermata, nessuna gerarchia nel traffico e nessuna corsia preferenziale, ma neanche colli di bottiglia a strozzare il traffico diretto verso siti sgraditi alle corporation.

In proposito giunge l'ultima evoluzione di Pirate Bay, la Baia dei Pirati che è l'incubo del fronte anti-pirateria in quanto epicentro dell'ultima generazione appassionati della condivisione peer-to-peer gratuita di contenuti digitali. Dopo la vendita del sito, i tecnici pirati hanno annunciato il pensionamento del vecchio sistema centralizzato di gestione dei link ai torrent in favore di uno diffuso, nel quale Pirate Bay assumerà la forma di un motore di ricerca per i torrent in condivisione, con il doppio risultato di rendere più stabile il servizio (si spera) e di sottrarsi alle pressioni legali delle corporation che hanno dichiarato guerra al file-sharing.

Guerra che procede male per gli alfieri del copyright, alcuni paesi europei come Francia e Gran Bretagna stanno cercando di promulgare leggi punitive nei confronti di chi scarica illegalmente contenuti dalla rete, ma con scarso successo. Nessun paese occidentale è ancora riuscito ad immaginare una regolamentazione che riesca a limitare il fenomeno senza comprimere pesantemente i diritti individuali, tra i quali molti paesi stanno riconoscendo proprio l'accesso alla rete.

Il confronto tra la rete e gli altri media continua ad essere aspro, nonostante il passare degli anni abbia portato ad un'integrazione sempre più spinta tra i diversi media. Se la radio regge il confronto e sembra anzi trarre ossigeno dalle possibilità offerte da streaming e podcasting, televisione e carta stampata arrncano, perdendo utenza e introiti in favore della rete. Soldi pesanti, quelli della pubblicità, ma anche un preoccupante calo della rilevanza e dell'impatto sulla formazione delle opinioni pubbliche, questi i motivi che spingono molti editori a scendere in guerra contro la rete. Poco importa che le loro edizioni si riempiano con poca fatica attingendo alla rete, per lo più senza riconoscerlo in alcun modo, gli editori vogliono difendere il loro prodotto, ma non hanno alcuna remora ad appropriarsi del contenuto pubblicato in rete. Recentemente ha fatto rumore il brutale plagio operato da una famosa conduttrice di programmi culinari in televisione, che ha pubblicato un fortunato libro di ricette copiando a man bassa da quelle rinomate di una blogger, notizia che però non ha raggiunto i telespettatori e i lettori che non hanno accesso alla rete.

Una delle battaglie più significative di questa guerra è quella che vede Google confrontarsi con gli editori che accusano l'azienda di Mountain View di sfruttare illegalmente i contenuti prodotti dai giornali. Un'accusa diffusa un po' ovunque nel mondo e se Rupert Murdoch è quello che fa più rumore, anche nel nostro paese si sono registrati attacchi a Google da parte degli editori. Il modello di business di Google è agli antipodi di quelli dell'infotainment televisivo e dell'editoria ed è abbastanza normale che i due mondi fatichino a capirsi,il delta culturale è vasto e non sembra che le intelligenze capaci di colmarlo attirino l'attenzione degli editori.

Murdoch è riuscito a rendersi ridicolo, minacciando Google di togliere l'accesso di Google News alle sue testate e accendendo una polemica al termine della quale si è capito solo che Google lo innervosisce perché riesce a guadagnare con la rete mentre le sue aziende ci perdono. L'ultima uscita di Murdoch in realtà è stata stimolata proprio da una disavventura con Google, nei giorni precedenti l'attacco Murdoch aveva saputo che avrebbe incassato cento milioni di dollari in meno del previsto da Google, perché in un accordo relativo a MySpace il sito di Murdoch non ha raggiunto gli obbiettivi fissati contrattualmente da Google per l'erogazione dei cento milioni.

Le disavventure di MySpace, penalizzato dall'affermarsi di Facebook, si aggiungono a quelle del Wall Street Journal, recente acquisizione del magnate australiano, che ha pensato bene di mettere a pagamento l'edizione online del giornale, decisione che ha comportato un crollo delle visite al sito, che così ha accompagnato il crollo delle vendite delle copie di carta a seguire il calo di credibilità della testata, in questo caso è il nome di Murdoch ad essere un problema perché non è certo un sinonimo di attendibilità, un requisito fondamentale per chi legge un quotidiano economico. A prescindere dalla qualità del WSJ, il tentativo di Murdoch rappresenta un po' il tentativo di “rimettere il genio nella bottiglia” dopo che ne scappato, come h notato Biza Stone, uno dei fondatori di Twitter.

Male anche per il Washington Times e l'agenzia UPI, travolti dalla lotta per la successione tra i figli del reverendo Moon, che è ancora vivo, ma che ha perso un po' di smalto. Nel ventunesimo secolo essere a capo della Lega Anticomunista Mondiale e allo stesso tempo della Chiesa Dell'unificazione e proclamarsi Dio cristiano in terra, non rende più come un tempo, se l'editoria classica soffre, la macchina di Moon è al disastro, superata a destra da una miriade di siti molto più estremi e in fondo divertenti. Al Washington Times il confronto ha visto in redazione anche la presenza di guardie armate e per un attimo la poderosa macchina da propaganda del reverendo coreano è sembrata fermarsi. Merita ricordare che il Washington Times e l'UPI sono state “le fonti” delle peggiori mistificazioni dei neo-conservatori americani, ripetute identiche dalla maggior parte dei media nostrani, senza mai sottolineare la peculiarità della fonte.

Se il reverendo coreano è il diavolo quando tenta Milingo, quando ha inventato balle per spingere l'Occidente alla guerra è stato trattato e presentato ai lettori dei media italiani come se fosse il Washington Post. Anche i media italiani sono schierati con Murdoch nella battaglia contro Google e così capita che nella mischia finiscano per fare brutta figura in parecchi al seguito dell'australiano. Una menzione la merita Massimo Mucchetti, che dalle pagine del Corriere della Sera scrive in propostio un lungo articolo, fondato però su almeno un paio di bugie grosse e sull'evidente necessità di piegare il discorso all'esito desiderato. Non è che Google non offra motivi d'apprensione nella sua tumultuosa espansione, ma la concorrenza che inventa storie per darsi ragione non fa un bell'effetto.

Fa imbestialire i professionisti impegnati in modelli di business tradizionali, perché Google fa soldi dove gli altri non riescono a fare soldi e allo stesso tempo colonizza nuovi spazi (anche quelli futuribili) con investimenti massicci che ai concorrenti sembrano a fondo perduto. Google in realtà non si comporta in maniera originale, ma semplicemente congrua al momento storico e allo stato dell'ambiente nel quale è chiamata ad operare, tumultuoso e in espansione geometrica. Percorre una strada aperta prima da IBM e poi ribadita da Microsoft, cercando di difendere e consolidare la posizione centrale che ha conquistato nel mercato dell'IT, ma soprattutto proiettandosi in un futuro nel quale la rete sarà enormemente più diffusa, potente e capiente.

Microsoft stessa tenta da sempre di colonizzare lo spazio elettronico e di dividerne i mercati verticalmente ed è di questi giorni una sua decisa reazione contro la pirateria, consistente nel divieto di accedere alla piattaforma di gioco online per Xbox agli utenti che hanno modificato le console di gioco per poter utilizzare giochi piratati, già più di un milione di possessori di Xbox sono stati bannati dalla piattaforma di gioco.Da qui l'ostilità da parte degli attori che perseguono modelli tradizionali di business, rinfocolata da dati che vedono aumentare l'utenza (e il business) in rete e calare l'audience dei media tradizionali. Un'ostilità che in alcuni paesi può tramutarsi in un tacito ostruzionismo alla diffusione della rete, non solo da parte della politica sempre spaventata dall'esistenza di spazi di comunicazione incontrollati, ma anche da parte delle istituzioni finanziarie e di potenti interessi costituiti. Il nostro paese è uno di quelli nei quali la diffusione di Internet trova una forte opposizione da parte di questa variegata composizione d'interessi, figlia di carenze culturali pesanti, ma anche sostenuta da considerazioni e interessi più prosaici.

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