di Mario Braconi

Qualche genio del marketing sostiene che, quando si va a comprare una borsa o un paio di scarpe griffate non è solo un oggetto di qualità e uno status symbol quello che si porta a casa, ma un’ “emozione”. Impossibile non rammaricarsi per la miseria di questo nostro oggi, in cui le “emozioni” si trovano, e a pagamento, nelle botteghe dove si smerciano merci di uso comune. Merci, per inciso, prodotte da terzisti per multinazionali che le rivendono al dettaglio con un mark-up del 45%. Ma questo è il mondo con cui dobbiamo fare i conti, ci piaccia o meno.

Uno dei servizi pubblicitari di punta di Google è AdSense, un software proprietario che consente agli inserzionisti di creare “annunci sponsorizzati”; per intendersi, quelli che compaiono a destra nella paginata dei risultati della ricerca. E’ l’inserzionista a decidere che tipo di parola contenuta nella ricerca debba attivare l’annuncio su Google e quanto è disposto a pagare per ogni click che gli internauti vi faranno sopra (meccanismo noto come “pay-per-click”, o PPC).

Gli annunci pubblicitari su Google sono organizzati secondo una gerarchia basata sui PPC degli altri inserzionisti e sul “punteggio di qualità”, un “voto” determinato (da Google) in funzione diversi fattori, tra cui i dati storici sui click effettuati, la “storia” dell’inserzionista, la “rilevanza” del testo e delle parole chiave da lui richieste. Il costo minimo del PPC è determinato tanto dal “punteggio di qualità” che dalle caratteristiche del sito di “atterraggio” del link sponsorizzato, in termini di qualità, contenuti, trasparenza e natura del business.

Dato che Google è un quasi-monopolista nelle ricerche online, non è difficile capire quanto sia importante per chi vende poter disporre di una vetrina di questo tipo, che può essere vista da milioni di persone contemporaneamente. Ed in effetti Google ricava dalla pubblicità 21,1 dei 21,8 miliardi di dollari del suo giro d’affari del 2008: in gran parte si tratta di keyword advertising, ovvero di pubblicità su parola chiave: ad esempio, dopo aver digitato il nome di una marca di auto di lusso nella finestrella di Google, sulla destra della pagina dei risultati mi appaiono i collegamenti ad una serie di concessionari con sede in Italia.

Praticamente una miniera d’oro, non solo per le aziende. Si pensi infatti ad Alex Tew , uno studente inglese di ventuno anni, che qualche anno fa ha fatto un milione di dollari in due mesi con keyword advertising un po’ speciale: ha comprato un dominio dal nome accattivante www.themilliondollarhomepage.com, che conteneva solamente una pagina bianca con un quadrato di mille pixel di lato, cioè, precisamene, una pagina con un milione di pixel bianchi. Alex ha messo in vendita quadrati a lotti minimi da 10 pixel: l’inserzionista aveva diritto di mettere il suo logo sullo spazio acquistato, con il collegamento al suo sito. Dopo una settimana aveva già venduto annunci pubblicitari per 40.000 dollari, e in cinque mesi ha centrato il suo obiettivo: guadagnare un milione di dollari per mantenersi agli studi.

Un marchio di moda che nasconde “emozioni” e dotato del misterioso potere di attribuire senso ad esistenze altrimenti biodegradabili; più un motore di ricerca in grado di intercettare i desideri di milioni di persone trasformandoli in consumo entusiasta: ecco la tempesta perfetta.

Pochi conoscono questo mondo come la conglomerata del lusso Louis Vuitton Moet Hennessy (LVMH): il brand è tutto: in fondo è solo grazie a quelle due letterine stampigliate che una normale borsa da donna in tela plastificata può essere venduta ad un prezzo minimo di 490 euro. E i dividendi di quel nome magico capace di prodigi da Re Mida non possono essere spartiti con nessuno. E’ questo il senso di una serie di azioni legali lanciate da LVMH contro Google, colpevole, a suo dire, di aver accettato denaro in pagamento di annunci pubblicitari in cui figurano i nomi dei marchi da essa gestiti.

Su questo tema la giustizia francese ha fornito verdetti contrastanti: ha dato ragione a LVMH nella sua causa contro eBay, accusata di aver violato le leggi sul marchio di fabbrica per aver consentito la messa all’asta di prodotti griffati dalla Casa francese. Ma in altri casi il verdetto è stato favorevole alla società Internet. Dopo l’appello presentato da Google contro la decisione di un tribunale francese che aveva dato ragione al gigante del lusso francese, il tribunale è ricorso alla Corte di Giustizia europea.

Luís Miguel Poiares Pessoa Maduro, uno degli Avvocati Generali della Corte di Giustizia, cui compete l’incarico di esporre conclusioni motivate sulle cause sottoposte alla Corte, si è espresso contro LVMH: “Nell’impedire le violazioni delle norme sul marchio non ci si può spingere ad impedire l’utilizzo di qualsiasi marchio nel cyberspazio. Dunque, Google non ha violato la legge quando ha consentito ai suoi inserzionisti di scegliere parole chiave che contengono marchi”. Anche se la decisione dell’Avvocato Generale non è vincolante per la Corte, nell’80% dei casi essa vi si adegua.

Via libera, dunque, alle parole chiave che comprendono un marchio, ma massima severità contro gli annunci che danneggiano i brand: se le aziende proprietarie del marchio dimostrano che l’annuncio su Google ha danneggiato i suoi interessi - ad esempio collegando ad un sito dove si vende merce contraffatta - la società di Mountain View potrà essere chiamata a risponderne. Chissà se prima o poi la giustizia europea riuscirà a mettere un freno all’arroganza di LVMH e alla furbizia di Google: se infatti la casa del lusso francese ha esagerato con le tutele pretese, il minimo che si richiede a Google è di essere certa della buonafede dei suoi inserzionisti prima di accettare il loro denaro.

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