di Liliana Adamo

Quando la passione è più forte del quieto vivere…in tre storie diverse, un unico leitmotiv, l’amore per l’ambiente e la difesa di quel macrocosmo, che, a ragion veduta, il lessico anglosassone interpreta in wildlife, infilando nell’unico lemma, territorio, esseri umani, animali, biodiversità. Queste le persone: Mary Hutton, dall’Australia, cambia la sua vita nel giorno in cui la proiezione di un cortometraggio mostra a ignari telespettatori i soprusi destinati agli orsi costretti a ballare in India, massacrati in Cambogia per ricavarne una speciale zuppa, allevati in Cina al fine d’estrargli la bile. Julie Andersen, originaria di Chicago, Illinois, lascia una promettente (e strapagata) carriera di pubblicitaria, per trasferirsi a Città del Capo, Sudafrica.

Presupposto? La sua grande passione per gli squali e un obiettivo che definisce “personale”: contenerne la mattanza, educando il mondo intero al rispetto del predatore più cacciato dei mari. Infine, una coppia di coniugi, Runa Khan e Yves Marre, francese l’uno, bengalese l’altra, promotori di Friendship, straordinaria ONG che opera nel paese più colpito dal global warming, il Bangladesh.

Tre storie diverse che hanno come primi attori, persone in apparenza uguali a tante altre con sensibilità e determinazione non comuni. Senza eufemismi ci piacerebbe considerarle “eroiche” (si perdoni l’attributo ormai antiquato), spinte da motivazioni interiori inarrestabili, che esigono un’azione in prima persona per non condiscendere alle prevaricazioni e alla sofferenza.

Ecologisti tutto d’un pezzo, fedeli a un’ortodossia massimalista? Ma no, i nostri “eroi” sono lontani anni luce da posizioni intransigenti al pari di gruppi antispecisti eversivi (secondo il Dipartimento di Giustizia americano) - e tanto per citarne gli acronimi: Earth Liberation Front (ELF), Fronte di Liberazione Animale (ALF), il rivoluzionario Celle-Animal Liberation Brigade (RCALB), Rights Militia (ARM)… - a ridosso, invece, di un movimento d’azione diretta che, in Italia, per esempio, trova la sua massima espressione in Occupy Green Hill, il cui “credo” si diffonde a gente “ordinaria”, non solo ad “animalisti tout court” (vedi la storia dell’insegnante e allieva, insieme arrestate per liberare i beagles destinati alla vivisezione).

E se da qualcuno giunge una valutazione superficiale, “sull’onda emotiva di massa”, la protesta unanime di Occupy deborda, anzi, in un’insurrezione popolare che risolutivamente contribuisce alla chiusura dell’allevamento a Montichiari, estendendosi fino alla magistratura e alla richiesta di leggi ad hoc. Enumerando gli arrestati, nel giorno fatidico l’assalto del lager, c’è da restare piacevolmente perplessi: in manette finiscono un integerrimo padre di famiglia, una professoressa, due irreprensibili dipendenti delle poste, un’impiegata del settore pubblico e così via.

Quando, in un pomeriggio estivo del ‘92, un servizio televisivo mostra a Mrs. Hutton, gli orsi più a rischio del pianeta, lei, tranquilla casalinga di Perth, non crede ai propri occhi. Il documentario racconta di come, questi meravigliosi animali siano indotti a ballare in India, dopo avergli strappato i denti, incatenati, picchiati, derisi e privati per sempre della loro indole selvaggia, mentre in Cambogia, la strage continua per una zuppa di zampa d’orso e in Cina per ricavarne la bile.

La pratica è tra le più cruente inflitte a un animale vivo: Mary Hutton ricorda ancora quel piccolo orso nero asiatico, rinchiuso in gabbia con un catetere di ferro grezzo inserito nella cistifellea per drenargli la bile, utilizzata per infusi “medicamentosi”. L’orsetto, sconvolto dal dolore, seguitava a sbattere la testa contro le sbarre durante il suo martirio. In tutto l’Estremo Oriente c’è un mercato molto fiorente basato sulla tortura degli animali e neppure la fauna selvatica ne è esente.

La tranquilla casalinga di Perth trascorre due settimane a girarsi e rigirarsi fino al momento in cui decide di fare qualcosa. E questa donna minuta, dallo sguardo dolce e solo in apparenza remissivo, comincia con una petizione in un centro commerciale per trasformarsi, dieci anni dopo, nel simbolo vivente per la liberazione e il recupero degli orsi in Asia, anche se, oggi, lei stessa ammette che la fine di questo “triste e ripugnante business” è ancora lontana. Crea un Fondo Bears e un manifesto, Save the bears, meditato a lungo nel garage di casa usato come ufficio. La sua iniziativa, appoggiata dall’intera classe medica veterinaria australiana, si ripercuote perfino il Parlamento.

Quanti orsi ha confiscato e riabilitato la signora Hutton? Migliaia, sebbene il suo impegno le sia costato caro. Nel 2005, quando parte per la Cambogia per affrontare una cultura refrattaria, bracconieri e commercianti senza scrupoli, suo figlio Simon, direttore del progetto Bears, è travolto e ucciso in strada a Phnom Penh. Oggi, Save the bears è un’organizzazione allargatasi in molti paesi, concentrata soprattutto nella riabilitazione degli orsetti orfani in Estremo Oriente e Russia, nel sud est asiatico, in Ecuador, India, Indonesia, Laos, Thailandia e Vietnam.

Raccogliendo sostenitori e donazioni da ogni parte del mondo, i partenariati transnazionali pensati su misura per paesi geograficamente e culturalmente diversi, grazie a una vasta gamma di strategie, perseguono gli obiettivi primari: introdurre mezzi di sussistenza sostenibili, consapevolezza ambientale, maggiore tutela dal punto di vista legislativo per intere comunità d’orsi selvatici. Malgrado ciò, lei, donna priva d’eccessive pretese, che è tornata a vivere a Perth e tira avanti con la modesta pensione militare del marito, minimizza i suoi successi: “Senza l’aiuto e la cooperazione di molte persone non avrei potuto affrontare un’impresa del genere…”.

Julie Andersen non ha esitato un attimo a lasciarsi alle spalle un’allettante carriera di pubblicitaria e seguire la passione per gli oceani, inventandosi dal niente, un lavoro fra i più duri, le public relations al servizio del pianeta: “Dovevo farlo subito, dall’oggi al domani, una decisione così drastica andava presa al volo; se avessi ponderato a lungo questa scelta, avrei rischiato di non partire…”. Con un pragmatismo peculiarmente yankee, la Andersen plasma una vera e propria azione no profit; la mission? Salvare gli squali dall’imminente estinzione. E si butta nella causa con la stessa risolutezza con cui a New York, ha impiantato e lasciato una società con sette milioni di dollari in fatturato, quaranta dipendenti e un business con brands altisonanti, AOL, Porsche, Citibank, Volkswagen.

Nella personalità prorompente di questa giovane donna convive una dualità, una sorta di sdoppiamento: imprenditrice in carriera, esperta subacquea, profonda conoscitrice degli oceani e appassionata ambientalista, sviluppa un contatto speciale con gli squali che si è evoluto negli anni, fino a diventare un rapporto di dipendenza reciproca.

Julie ama gli squali tigre, nuota con loro, li accarezza, li segue nelle profondità dell’oceano, senza mai provarne orrore o timore. Per la cronaca, Julie non è mai stata attaccata da uno squalo. Quando fa la sua scelta di vita, trasferendo armi e bagagli in Sudafrica, sa innanzitutto di dover agire sul piano comunicativo per restituire al signore dei mari, onore e merito. Una campagna mediatica in cui riversa talento ed esperienze acquisite nell’advertising.

Comincia a produrre un suo environmental trademark, Shark Angels e tre bellissime ragazze (lei compresa), promuovono un espediente, scortare in immersione, gruppi di persone educando all’interazione con gli squali, esorcizzando la paura: squali bianchi, tigre, martello, solo in casi rarissimi e sporadici (se provocati) possono essere pericolosi, il resto è finzione letteraria e cinematografica.

Considerato alla stregua di una belva assetata di sangue, questo formidabile predatore non ha mai suscitato simpatia o attenzione, la sua cattura, normalmente, è vista come una liberazione. In realtà, ogni squalo ucciso genera profitto; pinne, mascelle, denti valgono oro nei mercati di mezzo mondo, particolarmente in quelli asiatici, mentre s’ignora quanto la sua scomparsa, rappresenti una vera e propria minaccia all’intero habitat sottomarino.

Per Julie Andersen e Hannah Medd (biologa fra le più stimate che opera in Sudafrica), leggi e pene severe non bastano; mobilitare l’opinione pubblica, invece, può sgomberare il campo dai pregiudizi, conferendo dignità al ruolo fondamentale che svolge lo squalo nell’equilibrio della fauna oceanica. Se invitare la gente a immergersi, trovandosi faccia a faccia con questo predatore, può apparire come un’adrenalinica e imprudente performance, questa è in realtà un’attività importante per le comunità costiere, che così supplisce a introiti arbitrari, aiutando a difendere gli squali dalla mattanza.

Nel 2012 la Andersen si è resa protagonista di straordinari exploit: fra tutti, le iniziative di Shark Savers e Operation Requiem contro lo "shark finning" (immediatamente dopo la cattura, allo squalo sono tranciate di netto le pinne che saranno utilizzate nella preparazione della "shark fin soup", molto richiesta nei ristoranti asiatici, mentre l’animale, ributtato in mare, è condannato a un’atroce agonia).

Per vanificare l’odiosa pratica con tutti i mezzi, giuridici e di sensibilizzazione verso l’opinione pubblica, Operation Requiem ha prodotto anche un video, girato a Hong Kong e commentato da un popolare Olympic man, molto amato dai cinesi, l’ex cestista Yao Ming, che ostenta, senza mezzi termini, quale evidente brutalità si celi dietro un’antica tradizione culinaria, di cui, oggi, si può fare benissimo a meno…

Il germe del progetto “Friendship” ha inizio nel 1994, quando Yves Marre, navigatore solitario, partendo dalla Francia, raggiunge il tropico del Cancro e il Golfo del Bengala. Qui, sulle coste del Bangladesh decide di fermarsi e, a un certo punto, convertire il suo natante in una sorta di pronto soccorso galleggiante per chi, come i più poveri dei bengalesi, non ha accesso a cure mediche.

Percorso da un intricato sistema fluviale tra il Gange e il Brahmaputra, con una particolarissima conformazione morfologica, il Bangladesh è fra i paesi più duramente colpiti dalla fenomenologia a catena legata ai cambiamenti climatici. Dove una volta c’erano campi coltivati, vaste aree coperte da una fitta vegetazione (tipica dei climi tropicali) e villaggi abitati, ora c’è solo acqua.

Nel golfo del Bengala, negli ultimi decenni, inondazioni, tempeste tropicali, cicloni in accelerazione, hanno causato un’inarrestabile erosione del territorio, riduzione d’acqua potabile, depauperamento delle risorse, profughi.

In un territorio fragile e poverissimo, in cui le culture arcaiche legate alla pesca e all’agricoltura cedono il passo alla disgregazione, Yves Marre tenta di persuadere varie organizzazioni non governative e internazionali a realizzare il suo progetto con la possibilità a trasformare la barca in un modello sostenibile per servizi sanitari e di prima assistenza alle popolazioni locali, stremate da carestie e malattie. Poi avviene qualcosa: l’incontro con una principessa bengalese, Runa Khan, che da lì a poco diventa sua moglie, ribalta la prospettiva di un inevitabile fallimento.

Grazie al prestigio della “casta” e alle sue competenze, Runa intercede e ottiene i primi finanziamenti dall’Unilever (multinazionale anglo-olandese, nel settore dei generi di largo consumo, che si è distinta in attività benefiche nel terzo mondo con “crescita sostenibile”) e crea insieme al marito, quella che diventerà un’organizzazione ONG di sicuro impatto.

La chiameranno Friendship, in onore di una barca giunta dalla Francia e dell’amicizia che accomuna popoli diversi, avviando una collaborazione attiva con gli abitanti delle isole “nomadi” più remote e vulnerabili del Bangladesh.

Elementi indissociabili che contraddistinguono Friendship? Partecipazione, empatia, profonda conoscenza delle radici culturali del popolo bengalese, esperienza sul campo, propensione all’eco sostenibilità resa possibile anche dalla tecnologia.


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