di Sara Seganti

L’autostrada che dovrebbe collegare i due oceani, il Pacifico e l’Atlantico attraversando il sud America, sta diventando un calvario per l’esecutivo di Evo Morales, primo presidente indigeno della storia boliviana. La via della discordia, fortemente voluta dal governo, dovrebbe attraversare la Bolivia per 366 chilometri passando all’interno del parco nazionale del Tipnis - Territorio indigeno e parco nazionale Isiboro - Sécure - collegando le province di Beni e Cochabamba. Le etnie indigene yuracaré, moxos e chimán, provenienti dal nord est boliviano, animano la marcia di protesta a difesa delle loro terre: in 1.500 sono partiti il 15 di agosto da Trinidad, capoluogo della provincia settentrionale di Beni,  diretti alla capitale La Paz.

Quello che doveva essere un esercizio di democrazia si è trasformato in un grave caso politico la notte del 24 settembre, quando le forze dell’ordine boliviane hanno caricato i manifestanti nei pressi di Yacumo, a 300 chilometri dalla capitale boliviana, provocando decine di feriti, e forse anche dei morti. La risposta di Evo Morales non si è fatta attendere: il 26 settembre l’esecutivo ha fatto un passo indietro e ha bloccato il progetto, pur senza disconoscerlo ma rimettendolo ad un referendum polare. Morales ha anche negato che l’ordine di attaccare i manifestanti sia partito da lui, ha avviato un’inchiesta interna per accertare le responsabilità e si è scusato per le violenze della polizia.

Perché Morales, il presidente indigeno, viene contestato dalla sua stessa gente, o da una parte, per lo meno, di quel 70% di indigeni boliviani che erano sempre stati esclusi dalle decisioni e dal potere e che, con lui, hanno iniziato un percorso di partecipazione alla vita pubblica, culminato nella nuova Costituzione?

Il quadro non è di facile lettura visto che Evo Morales, leader del Movimento al socialismo, è noto per la sua sensibilità ambientale. Il suo governo, infatti, ha appunto varato nel 2009 una riforma costituzionale nella quale la Pachamama, madre natura, è diventata soggetto di diritti inalienabili. Quali sono, allora, nel merito le posizioni su questa autostrada, espressione dalla contrapposizione tra esigenze di sviluppo e tutela ambientale?

I gruppi etnici che popolano la Bolivia sono in contrasto tra di loro in questa valutazione. La protesta delle popolazioni della pianura s’identifica con la rivendicazione del rispetto della foresta primitiva del Tipnis, all’incirca 1 milione di ettari, dove vivono decine di comunità indigene; la foresta è  catalogata come Terra comunitaria originaria dallo stesso governo di Morales e, quindi, intangibile per il suo valore naturale e sociale.

Il parco, anche al di là del disboscamento necessario alla costruzione della strada, rischierebbe una deforestazione “di massa” di pari passo con l’aumento della sua accessibilità dopo l’inizio dei lavori. Sulla base della comparazione con altre esperienze analoghe, uno studio d’impatto ambientale prevede che con la realizzazione dell’autostrada, circa la metà della foresta rischierebbe di andare perduta nei prossimi vent’anni.

In risposta a queste argomentazioni, le etnie aymara e quechua, popoli degli altipiani andini, appoggiano la costruzione dell’autostrada che permetterebbe loro di accedere a inediti sbocchi per il commercio e di colonizzare nuovi terreni per espandere la loro attività tradizionale: la coltivazione delle foglie di coca. Se sia o no questa la via migliore é argomento da definire, ma la possibilità di utilizzare una nuova via per il commercio destinato all'esportazione s'inserisce pienamente nei progetti d'integrazione commerciale regionale, tanto quelli indicati nell'ambito del Mercosur quanto in quelli previsti dall'ALBA.

Una della critiche mosse a Morales, di etnia aymara, è di privilegiare gli interessi dei popoli andini a discapito degli altri gruppi indigeni. Ma è pur vero che le istanze di sviluppo avanzate dalle popolazioni che vivono nelle zone più remote e povere della Bolivia come gli altopiani, non possono essere semplicemente ignorate. Essi vedono in questo pezzo di autostrada un’opportunità di compartecipare a un progetto internazionale di sviluppo strategico per il Sudamerica. Passando anche per la Bolivia, la strada attraverserebbe la regione amazzonica collegando Manaus, capitale dello stato brasiliano di Amazonas, con i porti ecuadoriani e peruviani sul pacifico, sbocco commerciale per l’Asia orientale.

Questo progetto è fortemente sostenuto dal Brasile, infatti, che ne paga anche buona parte delle spese; non a caso è una ditta brasiliana, la Oas, ad avere ottenuto nel 2008, per 435 milioni di dollari, l’incarico di costruire lo spezzone di autostrada in Bolivia. La presenza ingombrante del Brasile nel progetto è un dato rilevante, essendo proprio il Brasile ad avere i maggiori interessi a fare da motore trainante dello sviluppo delle infrastrutture sul continente sud americano.

Ciò nonostante, per il governo boliviano la costruzione di collegamenti interni al paese e la connessione con i grossi centri di smistamento sul mare sono passaggi necessari per immettere la Bolivia in un percorso di sviluppo che non può e non deve puntare esclusivamente, com’è stato in passato, sulla semplice esportazione di materie prime.

La Bolivia si avvicina alle elezioni di ottobre in un clima politico molto teso: Morales si è costruito molti nemici con le politiche di nazionalizzazione degli idrocarburi che hanno ridimensionato la portata delle potenze straniere in Bolivia, in particolare gli Stati Uniti. Sarà a questo punto il referendum a decretare il futuro dell’autostrada, che potrebbe magari risolversi in quella mediazione, di cui si è molto parlato, che consisterebbe nel deviare il percorso ai margini del parco. Impresa economicamente meno conveniente ma che, certo, avrebbe il merito di ridimensionare le tensioni politiche dalle cuali la Bolivia ha bisogno di venire fuori.

 

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