Sono stati necessari dieci anni ad alcuni dei principali giornali “ufficiali” europei e americani per prendere una posizione pubblica netta a favore di Julian Assange nel procedimento di estradizione verso gli Stati Uniti a carico del fondatore di WikiLeaks. Con un ritardo ingiustificabile, il New York Times, il britannico Guardian, il francese Le Monde, il tedesco Der Spiegel e lo spagnolo El País hanno indirizzato lunedì una lettera aperta all’amministrazione Biden per invitare il presidente democratico a lasciar cadere tutte le accuse contro il giornalista australiano, riconoscendo finalmente le implicazioni democratiche e per la libertà di informazione del caso all’attenzione della giustizia del Regno Unito.

 

I cinque giornali avevano collaborato a partire dal 2010 con WikiLeaks nella pubblicazione dei documenti riservati del dipartimento di Stato USA ottenuti dall’organizzazione di Assange. Nella lettera viene ricordato come quest’ultimo venne arrestato nell’aprile del 2019 dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra su richiesta di Washington, per essere poi rinchiuso nei successivi tre anni e mezzo nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, “solitamente utilizzato per terroristi e membri del crimine organizzato”. Se consegnato alla giustizia americana, Assange rischia una condanna massima di 175 anni, come previsto dall’ultra-reazionario Espionage Act del 1917.

Il punto centrale della presa di posizione del New York Times e delle altre testate è la criminalizzazione del lavoro di giornalista che Assange si è limitato a esercitare con WikiLeaks, rendendo pubblici documenti segreti di vitale importanza per l’opinione pubblica mondiale. La lettera afferma che l’eventuale estradizione e condanna di Assange stabilirebbero “un pericoloso precedente” e minaccerebbero di “compromettere il Primo Emendamento [della Costituzione americana] e la libertà di stampa”. “Acquisire e rivelare informazioni sensibili nell’interesse pubblico”, continua il testo, “è un elemento cruciale del lavoro dei giornalisti”. Per questa ragione, “se questo lavoro sarà criminalizzato, le nostre democrazie verranno significativamente indebolite”. È dunque arrivato il momento per il governo americano di “mettere fine all’incriminazione di Julian Assange per la pubblicazione di [documenti] segreti”.

Implicito nella lettera dei cinque giornali è il fatto che la vergognosa campagna di persecuzione contro Assange serve agli Stati Uniti come esempio per scoraggiare altri giornalisti dal rivelare crimini e macchinazioni segrete come quelle smascherate da WikiLeaks negli ultimi anni. La sostanziale nettissima denuncia degli ultimi tre governi americani è opportuna e auspicabilmente utile alla risoluzione della vicenda giudiziara in corso. Rimangono tuttavia invariate le gravissime responsabilità di questi stessi giornali che solo oggi o, comunque, solo di recente hanno riconosciuto in maniera inequivocabile il ruolo di giornalista di Julian Assange, rendendo oggettivamente inaccettabile l’incriminazione del dipartimento di Giustizia USA.

Il silenzio mantenuto per anni sulla sua sorte e, anzi, gli attacchi frequenti contro il fondatore di WikiLeaks, che si sono letti sulle pagine del Times o del Guardian, hanno contribuito non solo a tenere a lungo lontana dal dibattito pubblico la vicenda, ma anche a favorire le manovre pseudo-legali degli Stati Uniti, così come dei governi di Regno Unito, Ecuador, Svezia e Australia. Proprio il caso montato ad arte dalla giustizia e dagli ambienti politici filo-americani svedesi contro Assange, accusato di stupro ai danni di due donne con cui aveva intrattenuto invece rapporti consensuali, benché inconsistente era servito come strumento decisivo per incastrare il giornalista australiano.

Assange era stato così costretto a cercare rifugio nell’ambasciata ecuadoriana per evitare l’estradizione a Stoccolma e, da qui, negli Stati Uniti. La stampa ufficiale non aveva avuto scrupoli nello sfruttare un caso tutto politico bollando Assange come uno stupratore intento a sfuggire alla giustizia, nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica occidentale e creare il clima propizio a una possibile condanna o al trasferimento forzato in America.

Prima ancora, il Guardian e il New York Times si erano affannati a prendere le distanze da WikiLeaks, con ogni probabilità dietro pressioni dei governi di Londra e Washington. Questi e altri giornali avevano pubblicato i documenti riservati del dipartimento di Stato americano, ma si erano assicurati di filtrare il materiale messo a disposizione da Assange, con il preciso intento di limitare i danni con la scusa dell’imperativo di minimizzare i rischi per il personale militare, diplomatico e dell’intelligence USA.

Dopo avere quindi negato quegli stessi principi che oggi riconoscono siano in pericolo con la persecuzione di Assange, i giornali della galassia “mainstream” avevano intensificato gli attacchi nei suoi confronti e della sua organizzazione, attribuendogli anche una inesistente collaborazione con il governo russo. Quando cioè nel 2016 WikiLeaks aveva rivelato il complotto del Partito Democratico americano per affondare la candidatura nelle elezioni primarie di Bernie Sanders e favorire quella di Hillary Clinton, i media “liberal” non avevano esitato a denunciare le collusioni di Assange con Donald Trump e l’entourage di Putin nel quadro del cosiddetto “Russiagate”.

Visti i precedenti e la funzione che i giornali a larga diffusione svolgono oggi, molto spesso vere e proprie casse di risonanza dei rispettivi governi, la presa di posizione di questa settimana a favore di Assange non può avere a che fare solo con gli scrupoli per la libertà di stampa. È senz’altro vero che l’eventuale estradizione e condanna di Assange avrebbe riflessi inquietanti per tutti i media e i giornalisti che pubblicano documenti governativi riservati. Tuttavia, in gioco ci sono anche altri interessi, non esattamente legati a così nobili principi.

È la stessa natura di giornali come il New York Times a sollevare ad esempio il sospetto che dietro l’appello alla Casa Bianca per archiviare il procedimento contro Assange ci sia in primo luogo il timore per l’ulteriore discredito a cui andrebbe incontro l’amministrazione Biden in caso di estradizione e condanna. Un processo negli Stati Uniti a un giornalista sulla base di accuse derivanti da una legge di oltre un secolo fa destinata a perseguire spie e traditori non deporrebbe evidentemente a favore della “democrazia” americana.

In un procedimento di questo genere verrebbero inoltre nuovamente a galla tutti i crimini e le macchinazioni che hanno visto protagonisti gli USA negli ultimi due decenni, così come rivelati da WikiLeaks, evidenziando in maniera clamorosa la doppiezza di un governo americano impegnato in una campagna di demonizzazione di paesi con presunti sistemi anti-democratici e autoritari come Russia, Cina o Iran.

Biden, da parte sua, in qualità di vice-presidente nel 2010 aveva avallato la decisione di Obama di non incriminare Assange proprio a causa delle implicazioni per la libertà di stampa. Trump avrebbe in seguito cambiato parere, con la richiesta di estradizione formulata dal dipartimento di Giustizia in base appunto all’Espionage Act. Il ritorno alla Casa Bianca da presidente di Biden non ha alla fine rappresentato nessun cambiamento della posizione americana. L’amministrazione democratica ha proseguito sulla stessa linea di quella precedente, prolungando le sofferenze di Assange e della sua famiglia.

Il fondatore di WikiLeaks aveva ottenuto un verdetto iniziale favorevole quando a inizio anno un giudice britannico si era opposto all’estradizione per i rischi che la detenzione in un carcere di massima sicurezza americano avrebbe determinato per la stessa vita di Assange. In seguito, però, la giustizia di Londra ha accolto il ricorso degli Stati Uniti e a giugno l’allora ministro degli Interni, Priti Patel, ha dato il via libera formale all’estradizione. La conclusione di questa fase cruciale del procedimento dovrebbe arrivare a breve, dopo il parere che verrà espresso sull’ennesimo ricorso presentato lo scorso agosto dai legali di Julian Assange.

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