Dietro all’ultima brutale aggressione israeliana contro i palestinesi nella striscia di Gaza sembrano esserci, oltre alle consuete ragioni legate all’oppressione di un intero popolo, delicate questioni politiche che riguardano il futuro del primo ministro, Benjamin Netanyahu. Attorno alla guerra potrebbe infatti decidersi anche la sorte del prossimo governo di Tel Aviv, per il quale sono in corso complicatissimi negoziati che appaiono ora appesi a un filo. Sul campo, nel frattempo, le vittime palestinesi sono già svariate decine, in gran parte civili e molti bambini, mentre la prospettiva di un cessate il fuoco appare tutt’altro che a portata di mano.

 

Le ostilità tra le forze armate di Israele da una parte e Hamas e Jihad Islamica dall’altra sono in pratica iniziate poco prima del probabile annuncio dell’accordo raggiunto tra i due leader dell’opposizione, Yair Lapid e Naftali Bennett, per provare a far nascere il primo esecutivo non guidato da Netanyahu dal 2009. Per avvicinarsi a questo risultato era stato necessario conciliare le posizioni spesso diametralmente opposte dei sei partiti candidati a far parte della coalizione del cosiddetto “governo del cambiamento”.

In particolare, il partito Yamina di Bennett, quello della Nuova Speranza dell’ex membro del Likud Gideon Sa’ar e Yisrael Beytenu dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, tutti con orientamenti di estrema destra e anti-arabi, dovrebbero partecipare a un governo di cui farebbe parte non solo il partito di centro di Lapid (Yesh Atid), ma addirittura quello arabo Ra’am. Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, aveva assegnato un incarico esplorativo settimana scorsa a Yair Lapid, dopo che lo stesso Netanyahu non era stato in grado di mettere assieme una maggioranza in parlamento per sostenere un suo nuovo gabinetto. Lapid ha a disposizione 28 giorni per ottenere un risultato positivo da presentare al presidente dello stato ebraico.

Se l’opportunismo e l’obiettivo di liquidare Netanyahu potevano agire da collanti tra formazioni così disparate, l’ipotesi che un partito che rappresenta la minoranza araba in Israele entri in una coalizione assieme a forze che appoggiano in pieno l’aggressione contro i palestinesi o vi stanno prendendo parte attiva, come il ministro della Difesa Benny Gantz, appare difficilmente sostenibile. Infatti, il leader di Ra’am, Mansour Abbas, ha subito congelato le trattative che, nonostante le rassicurazioni di Lapid, potrebbero naufragare definitivamente.

Se ciò dovesse accadere, resterebbero con ogni probabilità due opzioni sul tavolo, entrambe favorevoli a Netanyahu, il quale, con un’uscita di scena, dovrebbe invece affrontare il processo in corso a suo carico per corruzione senza alcuna protezione. Il primo scenario è una quinta elezione anticipata, verso la quale il premier e il suo partito si avvierebbero con il vantaggio della questione della “sicurezza” al centro del dibattito, ma anche dell’ennesimo fallimento nel trovare un’intesa di governo da parte dei suoi oppositori, oltretutto macchiati dal tentativo di collaborare con i partiti arabi.

Il secondo si verificherebbe probabilmente nell’eventualità di un conflitto prolungato a Gaza. La situazione di emergenza assicurerebbe la permanenza di Netanyahu al potere, con l’appoggio per convinzione o per opportunità politica di tutti i leader dell’opposizione. D’altra parte, sia Lapid sia Bennett hanno immediatamente dato la loro approvazione alle incursioni contro Gaza e, anzi, entrambi hanno evidenziato posizioni anche più estreme di Netanyahu sulla guerra.

I drammatici sviluppi di questi giorni sembrano dunque rispondere a un disegno deliberato che Netanyahu e i suoi alleati potrebbero avere studiato a tavolino per le ragioni appena esposte. Ripercorrendo anche sommariamente gli eventi delle ultime settimane che hanno portato all’esplosione delle violenze, è facile dedurre la natura provocatoria delle decisioni del governo e delle forze di sicurezza israeliane, prese allo scopo preciso di provocare la reazione dei palestinesi e di Hamas.

Dall’inizio del mese di Ramadan il 12 aprile scorso, è stato spesso deciso il dispiegamento della polizia nella Spianata delle Moschee a Gerusalemme, vietato dal diritto internazionale, quasi sempre giustificato dalla necessità di prevenire assembramenti vietati dalle norme anti-COVID. Queste misure avevano provocato accese proteste, accolte con il ricorso puntuale alla violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane.

I due episodi più gravi si erano verificati tra lo scorso fine settimana e lunedì. Nel primo caso, la polizia di Israele aveva fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa attaccando indiscriminatamente i palestinesi in preghiera, facendo centinaia di feriti. Lunedì, invece, la repressione era scattata in seguito alle proteste palestinesi contro la manifestazione annuale degli ultra-nazionalisti israeliani per festeggiare l’occupazione di Gerusalemme Est nella guerra del 1967.

In entrambi i casi, le giustificazioni di Israele sono state a dir poco pretestuose, visto che la brutalità e la violenza a cui ha assistito tutto il mondo non possono essere legittimate dal lancio di pietre o di altri oggetti di una popolazione oppressa in rivolta. Le proteste dovute a questi eventi si sono saldate a quelle scatenate dai fatti del quartiere arabo di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, legati a ordini di sfratto emessi illegalmente dalla giustizia israeliana nei confronti di decine di famiglie palestinesi che dovrebbero lasciare le loro case e le loro terre ai coloni ebrei.

A tutto ciò vanno aggiunti anche i contorni della già ricordata “Marcia delle Bandiere” che commemora l’annessione di Gerusalemme Est. Viste le tensioni già alle stelle, da più parti era stato chiesto di cancellare una manifestazione che include il passaggio attraverso i quartieri arabi di Gerusalemme. Anche i vertici delle forze di sicurezza israeliane sembra avessero fatto pressioni in questo senso sul governo, ma Netanyahu aveva al contrario dato il via libera a una dimostrazione ultra-provocatoria. Solo dopo l’esplosione dei primi scontri era stata ordinata una modifica al percorso della marcia, in modo da evitare i quartieri arabi.

La situazione è poi precipitata con l’ultimatum lanciato da Hamas a Israele per ritirare le forze di sicurezza dalla Spianata delle Moschee. All’ovvio rifiuto, sono partiti i razzi da Gaza in direzione del territorio dello stato ebraico, a cui Israele ha risposto con la consueta violenza spropositata, possibile come sempre grazie all’appoggio incondizionato degli Stati Uniti e dei governi europei.

Se nei precedenti conflitti, nonostante lo spaventoso bilancio di vittime civili palestinesi, Netanyahu aveva mostrato un relativo pragmatismo e la volontà di non superare un certo limite, la retorica e le azioni di questi giorni lasciano intravedere un’attitudine in parte differente, con ogni probabilità proprio per creare una situazione infuocata che gli permetta di raccogliere i benefici politici sperati. Il premier israeliano ha infatti finora respinto le offerte di mediazione dell’Egitto per una possibile tregua, mentre è stata ordinata la mobilitazione di migliaia di riservisti e viene ripetutamente minacciata un’ulteriore escalation dell’aggressione contro Hamas e la striscia di Gaza.

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