Il cessate il fuoco entrato in vigore in Libano il 27 novembre scorso è stato utilizzato da subito da Israele per raggiungere alcuni obiettivi che non era stato possibile conseguire grazie alla resistenza di Hezbollah durante la fase più calda del conflitto nelle settimane precedenti. A confermarlo sono le centinaia o forse migliaia di violazioni della tregua registrate in questi 60 giorni e il rifiuto di evacuare le forze armate sioniste dal territorio libanese entro la scadenza stabilita dai termini dell’accordo. A presiedere e favorire le ennesime azioni illegali di Israele sono ancora una volta gli Stati Uniti, assieme all’altro “garante” del cessate il fuoco, la Francia, e di fatto anche al nuovo governo di Beirut.

La giustificazione citata da Tel Aviv per restare nel sud del Libano è la mancata implementazione dei termini della tregua da parte del vicino settentrionale. Ovvero che l’esercito libanese non avrebbe ancora preso possesso di tutta l’area a sud del fiume Leonte (Litani), sgomberando le forze di Hezbollah e le loro armi. Netanyahu ha così chiesto a Washington di prorogare i tempi del ritiro dal Libano, cosa che l’amministrazione Trump ha concesso, annunciando lunedì un’estensione fino al 18 febbraio prossimo.

Fermo restando che, come già accennato, a violare ripetutamente l’accordo è stato proprio Israele, la scusa addotta per mantenere i propri militari in Libano sembra essere smentita dalla realtà. L’ex diplomatico britannico e commentatore indipendente, Craig Murray, nel suo più recente reportage sul campo nel Libano meridionale ha raccontato di un esercito del “paese dei cedri” in pieno controllo dell’area in questione. Murray ha documentato la presenza di checkpoint “in ogni principale incrocio e all’ingresso delle città”, nonché lungo “i sentieri che conducono alle colline”. Nella sua visita, l’ex ambasciatore di Londra non ha inoltre rilevato uomini armati che non appartenessero alle forze armate libanesi.

Ancora, Murray riporta lo smantellamento e la presa di possesso da parte dell’esercito libanese di varie postazioni militari di Hezbollah, dove sono state confiscate decine di depositi di armi. In definitiva, “le uniche aree nel sud del Libano non ancora sotto il controllo delle forze armate sono quelle occupate dall’esercito israeliano”. La situazione è ancora più paradossale se si considera, come ricorda sempre Craig Murray, che le forze armate del Libano sono in larga misura controllate e finanziate dagli USA e, di conseguenza, tendono a favorire lo stato ebraico.

Una realtà riemersa drammaticamente in questi giorni, quando i soldati libanesi non hanno mosso un dito a difesa degli abitanti delle aree occupate da Israele che cercavano di tornare alle loro abitazioni, per essere accolti dal fuoco delle forze sioniste. I morti sono stati almeno 24, di cui cinque bambini, che si aggiungono alle quasi cento vittime libanesi registrate dall’inizio del cessate il fuoco. I residenti libanesi sono riusciti comunque a liberare qualche decina di villaggi, ma Netanyahu sembra ben deciso a mantenere un contingente importante nel vicino settentrionale.

Questa situazione si è venuta a creare non solo nel silenzio dei “garanti”, Stati Uniti e Francia, il cui ruolo nell’assecondare le manovre di Israele era facilmente prevedibile. Anche lo stesso governo di Beirut non ha però fatto né detto nulla per protestare contro la condotta israeliana. Dopo la firma della tregua e l’indebolimento di Hezbollah, le potenze occidentali e i regimi arabi del Golfo hanno favorito l’elezione del presidente libanese, il generale Joseph Aoun, e la nomina del primo ministro, Nawaf Salam, entrambi contro le aspettative del “partito di Dio” e certi che si sarebbero adoperati entrambi per i loro interessi e quelli di Israele.

In definitiva, Israele ha usato il cessate il fuoco per distruggere decine di villaggi nel sud del Libano, fare piazza pulita, impedire il ritorno dei residenti e costruire postazioni militari. Queste operazioni non hanno ancora raggiunto l’obiettivo di consolidare la presenza sionista in quest’area e, perciò, la scadenza dei termini per l’implementazione della tregua è stata prorogata grazie all’intervento americano. Anche il 18 febbraio prossimo, tuttavia, Israele quasi certamente si rifiuterà di lasciare il Libano. La vicenda mostra in altre parole come Netanyahu intenda rendere definitiva l’occupazione del sud del Libano, nel quadro del progetto della “Grande Israele” che ha già preso forma nel sud della Siria dopo la caduta del governo di Assad. Il tutto con la complicità di Washington, ma anche del nuovo governo di Beirut e dei qaedisti che controllano il potere a Damasco.

Quello di Netanyahu è evidentemente un piano bipartisan in Israele. Nei giorni scorsi, l’ex ministro della Difesa e leader dell’opposizione, Benny Gantz, ha infatti chiesto apertamente un’escalation del coinvolgimento sionista in Libano nonostante la tregua. L’ex comandante delle forze di occupazione ha invitato il primo ministro a impiegare ancora più risorse oltre il confine settentrionale, lasciando pochi dubbi sull’obiettivo finale di Tel Aviv in Libano.

Hezbollah, da parte sua, aveva da giorni avvertito che non sarebbero state tollerate estensioni dei termini per il ritiro israeliano. I suoi vertici hanno promesso di tornare ad attaccare le forze sioniste se fossero rimaste in Libano dopo la scadenza del 26 gennaio, ma fino ad ora non si sono verificati scontri a fuoco diretti tra le due parti. In un’intervista rilasciata nel fine settimana, il segretario generale di Hezbollah Naim Qassem, ha comunque ribadito l’impegno per la difesa della sovranità del paese e la lotta a oltranza contro l’occupazione.

La prudenza di Hezbollah dal lato pratico ha suscitato le critiche di molti negli ambienti anti-sionisti e ci sono pochi dubbi che il mancato intervento, soprattutto dopo l’uccisione di decine di civili libanesi che tentavano di tornare alle loro abitazioni nel sud del paese, esponga il partito-movimento sciita a una certa perdita di credibilità. Il colpo subito in seguito alla brutale aggressione israeliana continua d’altra parte a farsi sentire, in particolare per quanto riguarda la leadership del movimento.

Hezbollah è quindi sottoposto a enormi pressioni sia sul fronte interno sia su quello regionale e, oltretutto, il cambio della guardia alla Casa Bianca ha messo in modalità d’attesa il governo iraniano, principale sostenitore del “partito di Dio”, per verificare se ci saranno segnali di un possibile dialogo con Washington. Ciò, assieme alla necessità di riorganizzarsi da parte di Hezbollah, ha favorito un atteggiamento più prudente in tutto il fronte della Resistenza, riducendo l’appetito per un nuovo conflitto.

La principale responsabilità di quanto sta accadendo non è ad ogni modo di Hezbollah, che ha pagato un prezzo altissimo per la solidarietà con i palestinesi a Gaza e per avere combattuto il regime sionista, ma delle forze politiche libanesi filo-occidentali che, contro la sovranità e gli interessi del loro paese, continuano a prendere ordini da Washington, Parigi e Riyadh e a chiudere gli occhi davanti alla violenza di Israele.

Al contrario della classe politica libanese, gli abitanti del sud di questo paese sono invece determinati a liberare le proprie città e villaggi dall’occupazione sionista. Questa battaglia è in pieno svolgimento e l’eventuale ritiro di Israele oppure il consolidamento dell’occupazione dipenderà dalla popolazione e dalla forza rimasta alla Resistenza, non certo da un governo e da un esercito che restano in larga misura al servizio delle forze nemiche del loro stesso paese.

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