Sono tornate in queste ore a circolare in maniera insistente le voci di un possibile imminente accordo per un cessate il fuoco a Gaza. La partenza per Doha del numero uno del Mossad, David Barnea, ha rafforzato le speranze di molti per la fine del genocidio palestinese in tempi brevi. Nella capitale del Qatar è presente anche l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, mentre l’amministrazione democratica americana uscente è tornata a chiedere pubblicamente al regime di Netanyahu di favorire l’implementazione di una tregua. È possibile quindi che si stia preparando una sospensione della strage nella striscia in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente repubblicano, ma tutti i segnali indicano che lo stop all’aggressione potrebbe essere solo temporanea, se non addirittura una trappola per Hamas.

Come nei mesi scorsi, quando una tregua sembrava essere a portata di mano, gli ostacoli erano e restano numerosi e di difficile soluzione. Un esponente di primo piano del movimento di resistenza palestinese ha spiegato alla testata libanese Al Mayadeen che Israele insiste nel chiedere “condizioni impossibili” per finalizzare l’accordo. Una di queste è la permanenza di militari israeliani sul territorio di Gaza, tra cui nei corridoi strategicamente cruciali di Philadelphia e Netzarim.

Più in generale, teme correttamente Hamas, Tel Aviv vuole tenere aperta la possibilità di riprendere l’aggressione e il genocidio dopo la prima fase del cessate il fuoco, ovvero dopo la liberazione degli “ostaggi” israeliani. Hamas insiste al contrario per una tregua permanente e, probabilmente per raggiungere questo obiettivo, ha fatto concessioni inaspettate alla delegazione israeliana durante i negoziati, ad esempio sulla questione del numero e dell’identità dei detenuti da liberare già nella prima fase dell’accordo.

Non è chiaro, nel caso dovesse alla fine andare in porto un’intesa, quali garanzie Hamas potrebbe ritenere sufficienti a questo scopo e molto dipenderà anche dalle reali condizioni in cui versa l’organizzazione islamista dopo oltre un anno di guerra. Un recente articolo del quotidiano israeliano Haaretz ha fatto capire quali sono i pericoli per il movimento che governa la striscia. Nel concreto, cioè, Israele non si impegnerebbe ad astenersi dall’attaccare nuovamente Gaza nemmeno al termine di una potenziale seconda fase della tregua. Al tavolo delle trattative potrebbe esserci quindi un tentativo di offrire come garanzia non l’impegno israeliano a non riprendere il genocidio, bensì solo quello degli Stati Uniti a “lavorare con Israele per la fine della guerra”.

Se così fosse, l’eventuale accordo si baserebbe di fatto sulla più o meno vaga promessa americana di fare pressioni su Netanyahu per concludere definitivamente le operazioni militari, senza appunto un impegno esplicito di Tel Aviv. Quanto possa valere una rassicurazione americana di questo genere non è difficile intuirlo se si pensa all’appoggio totale dato al regime sionista in quindici mesi di massacri a Gaza. La situazione potrebbe poi oltretutto peggiorare per Hamas con il ritorno alla Casa Bianca di Trump dal prossimo 20 gennaio.

Anche se stanno mediando i negoziati in corso, gli Stati Uniti sono tutt’altro che imparziali e il rischio concreto è che il possibile accordo si risolva solo in una tregua temporanea che consenta la liberazione di tutti gli “ostaggi” detenuti ancora da Hamas, in modo che poi l’aggressione militare nella striscia possa riprendere. Questa opzione spiegherebbe anche l’accettazione da parte di Netanyahu di un accordo con Hamas che i suoi partner di governo dell’ultra-destra continuano a definire come una “catastrofe”.

In questi precisi termini si è espresso il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ma se l’accordo fosse una trappola per Hamas le sue parole potrebbero anche non portare a un’uscita dal governo del suo partito, come aveva sempre minacciato negli ultimi mesi. All’opposizione, tuttavia, Benny Gantz ha dato pieno appoggio all’accordo per consentire il ritorno dei detenuti di Hamas. Gantz aveva fatto parte a lungo del governo di emergenza seguito ai fatti del 7 ottobre 2023 e potrebbe forse agire da stampella per il governo guidato dal Likud in caso di diserzione dell’estrema destra a causa della tregua.

La stampa USA ha comunque scritto lunedì che Israele ha concordato con i mediatori americani, egiziani e del Qatar una bozza definitiva dell’accordo e attende ora la risposta di Hamas, in particolare del numero uno del braccio armato del movimento, Mohammed Sinwar, fratello del leader assassinato lo scorso ottobre da Israele, Yahya Sinwar. I vertici militari delle forze di occupazione avrebbero da parte loro già pronti i piani per un rapido ritiro da Gaza, incluso dal corridoio di Netzarim che divide in due la striscia.

Queste notizie e gli entusiasmi veicolati dalla stampa ufficiale vanno presi con cautela. Già più volte nel recente passato si era parlato di possibili tregue imminenti, poi finite nel nulla. In tutti i casi, l’accento da parte di Israele e dei suoi alleati è sempre e solo sull’imperativo di liberare gli “ostaggi” in mano a Hamas. Il genocidio palestinese in corso nel sostanziale silenzio dell’Occidente continua a essere invece tutt’al più un dettaglio secondario, così che una volta completate le prime fasi della tregua, la strage potrebbe facilmente riprendere.

D’altra parte, come già anticipato, l’amministrazione americana entrante sarà ancora di più allineata alle posizioni israeliane e non è da escludere che Trump possa finire per approvare anche formalmente la pulizia etnica e la rioccupazione della striscia. Ciò che si annuncia a breve da Washington lo ha chiarito nel fine settimana il vice-presidente eletto, J. D. Vance. In un’intervista, l’ex senatore dell’Ohio ha ripreso le raccapriccianti dichiarazioni di qualche giorno di prima di Trump per minacciare la distruzione totale di Hamas se non verranno rilasciati gli “ostaggi”.

Vance ha prospettato ancora maggiore supporto militare al regime sionista e sanzioni “molto aggressive” contro chiunque sostenga “organizzazioni terroristiche” in Medio Oriente, per poi attaccare indirettamente l’amministrazione uscente, in tutto e per tutto complice del genocidio, ma colpevole invece a suo dire di non avere fatto abbastanza per sostenere militarmente le operazioni di Israele.

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