L’amministrazione americana uscente del presidente Biden ha ancora una volta lanciato missili ATACMS sul territorio russo in collaborazione con il regime ucraino dopo circa tre settimane di pausa seguite alla devastante risposta di Mosca con il nuovo missile Oreshnik in dotazione delle proprie forze armate. L’utilità tattica o strategica di queste azioni, ovvero pari a zero, è inversamente proporzionale al rischio di escalation che producono, ma la Casa Bianca sembra determinata a non fare passi indietro nonostante gli avvertimenti del Cremlino. Le ragioni di questo atteggiamento sono con ogni probabilità da ricercare nell’imminente ritorno alla presidenza di Trump e nelle fasi preparatorie, presumibilmente in atto, di un qualche processo diplomatico per mettere fine alla guerra in corso dal febbraio 2022.

La Casa Bianca e il dipartimento di Stato sono perfettamente consapevoli che l’operazione di mercoledì con i missili balistici americani ATACMS provocherà una inevitabile ritorsione da parte russa. A confermarlo è stata la portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, che in una conferenza stampa ha ammesso la quasi certa iniziativa di Mosca nei prossimi giorni o nelle prossime ore. Da Washington si aspettano comunque un bombardamento ancora una volta di qualche sito in Ucraina, mentre contano che Putin non rischierà nemmeno in questa occasione un lancio contro un’installazione militare in un paese NATO.

La prudenza russa continua in sostanza a essere sopravvalutata dall’Occidente, anche se esistono ormai tutti i segnali di una spirale di tensioni difficile da invertire. Per gli USA è consuetudine sacrificare uomini e infrastrutture in Ucraina. Tuttavia, l’insistenza su provocazioni come l’uso di missili ATACMS, impossibili da utilizzare senza la partecipazione di personale americano, rischia di portare il livello dello scontro sempre più in alto, fino a rendere inevitabile prima o poi un’azione russa diretta contro una delle basi NATO situate in Europa.

Che Mosca si aspetti o sia pronta ad affrontare un aggravamento della crisi in atto è testimoniato anche dall’avvertimento diffuso mercoledì dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Quest’ultima ha invitato i cittadini russi a evitare viaggi negli USA, in Canada e, “salvo qualche eccezione”, in Europa nel periodo natalizio. Il rischio identificato è quello di essere “presi di mira” dalle autorità di questi paesi, magari anche in seguito all’esplodere di uno scontro armato diretto tra Mosca e questi ultimi.

È possibile che i militari e l’intelligence statunitensi continuino ad auto-illudersi non solo sul fatto che il Cremlino stia bluffando, ma anche che la disponibilità dei missili Oreshnik sia estremamente limitata e quindi il bombardamento di tre settimane fa a Dnepropetrovsk sia un caso isolato. In realtà, una recente analisi della stessa intelligence ucraina aveva stimato che la Russia ha la capacità di produrre 25 missili Oreshnik al mese, pari quindi a 300 all’anno.

Sarà da verificare se la probabile nuova risposta russa attesa a breve riporterà alla realtà l’amministrazione Biden, anche se altri fattori sembrano entrare in gioco nelle scelte americane sempre più rischiose. Alcuni osservatori collegano l’ultimo attacco con gli ATACMS – secondo Mosca consistito nel lancio di sei missili, tutti abbattuti o dirottati, contro la località di Taganrog sul Mare di Azov – agli eventi del fine settimana in Siria. Il crollo del governo di Assad avrebbe indebolito la Russia e da qui la decisione americana di mettere pressione sul Cremlino per verificare l’eventuale disponibilità a fare qualche passo indietro.

Ci sono inoltre pochi dubbi che il governo uscente negli USA insista nel portare la guerra in Ucraina su un altro livello, così da boicottare i piani di Trump per arrivare a una soluzione diplomatica. Non è un caso che il primo ministro ungherese Orban, dopo un incontro con Trump e una telefonata nella giornata di mercoledì con Putin, abbia avvertito pubblicamente che “queste sono le settimane più pericolose dell’intero conflitto”.

Sembra comunque evidente, anche se non agli occhi del dipartimento di Stato americano, che la Russia darà seguito agli avvertimenti delle scorse ore. Il Cremlino non può permettersi di proiettare debolezza, poiché in tal caso le provocazioni NATO aumenterebbero, tanto più alla luce della débâcle siriana che ha messo in dubbio la presenza russa nel paese appena sopraffatto dai terroristi appoggiati dall’Occidente.

Le operazioni militari ucraine, così come le discussioni e le polemiche in corso in Europa attorno alla guerra, sono anche il risultato del tentativo di tutti gli attori coinvolti di posizionarsi nel migliore dei modi in vista di possibili colloqui di pace o una tregua. Un’evoluzione, quest’ultima, che in molti prevedono o auspicano una volta che Trump si sarà reinsediato ufficialmente alla Casa Bianca. Mercoledì ha tenuto banco ad esempio una diatriba tra Zelensky e Orban, dopo che il premier ungherese ha rivelato che l’ex comico televisivo aveva respinto una proposta di Budapest per una tregua natalizia e uno scambio di prigionieri tra Kiev e Mosca.

Orban ne ha dato notizia con un post su X (ex Twitter), in risposta alle critiche rivoltegli da Zelensky per avere discusso telefonicamente con Putin della situazione in Ucraina. Di lì a poco, l’ufficio di Zelensky ha poi smentito la ricostruzione di Orban, il quale ha però scritto, questa volta su Facebook, che il ritorno di Trump avrà “effetti positivi” sulla crisi ucraina.

Giovedì è stata la volta invece di uno scontro tra Kiev e Berlino. La vice-premier ucraina, Olga Stefanishina, in un’intervista alla testata on-line Politico ha attaccato il governo tedesco per avere espresso la propria opposizione all’ingresso del suo paese nella NATO. Oltre al fatto che sono molti i paesi membri a non considerare fattibile un’adesione di Kiev al Patto Atlantico, queste polemiche riflettono probabilmente i risentimenti e il panico che si stanno diffondendo tra gli esponenti del regime di Zelensky in previsione di uno strappo tra i suoi sponsor, in buona parte pronti a sostenere una formula diplomatica che, rispecchiando la realtà sul campo, finirà per penalizzare l’Ucraina.

Il primo ministro della Slovacchia, Robert Fico, ha fatto precisamente questa previsione in un’intervista pubblicata martedì da un giornale brasiliano. Fico, assieme a Orban il leader europeo più critico della gestione della crisi russo-ucraina da parte della NATO, ha spiegato che l’Occidente si sta preparando a “tradire” l’Ucraina, principalmente perché la strategia di indebolire militarmente ed economicamente la Russia è fallita.

Secondo il premier slovacco sarà perciò inevitabile l’accettazione da parte dei governi occidentali della cessione di parte del territorio ucraino, oltre che dell’impossibilità di entrare nella NATO. Fico sostiene anche che verranno fatti tentativi per implementare misure che possano essere gradite a Kiev, come il dispiegamento in ciò che resterà dell’Ucraina di un contingente di militari stranieri in funzione di “peacekeeping”.

Tutte le condizioni per una soluzione diplomatica che circolano in Occidente in questo periodo, incluso il piano non ancora chiaro di Trump, continuano però a non considerare o a considerare solo parzialmente le richieste russe, ovvero della parte che sta vincendo la guerra. Gli ostacoli sulla strada della pace in Ucraina restano insomma formidabili, come dimostrano ad esempio la situazione nel “oblast” russo di Kursk o gli equilibri interni al regime di Zelensky e le reazioni degli ambienti neo-nazisti, e da qui al passaggio di consegne alla Casa Bianca potrebbero esserci altri eventi che rischiano di rimescolare le carte e far precipitare la situazione prima ancora che la diplomazia possa avere una seria possibilità di successo.

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