Damasco è caduta e, come il resto del Paese, lo ha fatto senza combattere, ritirandosi di fronte all’avanzata delle truppe jihadiste a comando occidentale ma guidate sul campo da uno dei suoi funzionari prediletti: Al-Jodani, ex appartenente ad Al queda, poi membro dell’Isis e oggi, miracolosamente, insignito dai media occidentali della qualifica romantica di “Ribelle”. Il rapido arretramento delle forze armate governative davanti all’avanzata dei militanti jihadisti, rende credibili le ipotesi occidentali riguardo i limiti delle intelligence siriana ed iraniana, che non si sono rese conto di ciò che da mesi si preparava, pur se l’attacco da più direzioni lanciato a metà della scorsa settimana, secondo alcune fonti, fosse allo studio da tempo e, in base a quanto scritto dal quotidiano russo Izvestia, fosse stato coordinato tra le intelligence di Turchia, Ucraina, Francia e Israele.

Ma nonostante ciò nessuno immaginava la presa della Siria in tempi rapidi e senza colpo ferire. Si teneva conto di come Iran, Hezbollah e Russia avevano difeso la Siria per ben 13 anni e di come avevano vinto sul terreno, obbligando l’Isis e i suoi seguaci, ma anche l’Occidente con i suoi amici i kurdi e i turchi ad indietreggiare. Questa volta invece, Mosca è intervenuta nei giorni scorsi con raid aerei per sostenere una controffensiva, poi null’altro.

Il mancato arrivo dei pasdaran iraniani e dei miliziani di Hezbollah si può spiegare con le serie difficoltà di entrambi nei loro contesti e con l’intervento di Israele nel chiudere con il suo esercito i varchi di accesso alla Siria. Ma ciò che dovrà essere indagato è il perché del ritiro dell’esercito regolare, sapendo bene che questo può essere ordinato solo dal Presidente o dall’alto comando militare. Cosa sia successo a Damasco nelle 36 ore che hanno preceduto l’entrata degli sgozzatori resta per ora un mistero. Certo è che Mosca forniva un intervento a sostegno del governo e su richiesta di quest’ultimo, e nonostante l’impegno in Ucraina avrebbe potuto sostenere l’esercito siriano con la sua aeronautica militare, come già fece in passato. Ma dopo aver dato inizio alla controffensiva sembra abbia deciso di non intervenire ulteriormente, magari di fronte ad un esercito siriano che si ritirava invece di combattere. Mosca poteva aiutare, non sostituirsi ai siriani. Contemporaneamente, ci si deve chiedere se l’impossibilità di intervento di Hezbollah e Pasdaran abbia convinto i siriani di non essere in grado, senza costoro, di sostenere con le sole sue forze l’avanzata di tagliagole e mercenari.

Il tempo, forse, dirà come sono andate le cose. Al momento, però, non può che registrarsi una vittoria dell’Occidente Collettivo che offre un cadeau preziosissimo sotto il profilo politico, militare ed energetico ad Israele, che una volta sistemata la governance a Damasco potrà dedicarsi alla parte finale del piano espansionistico, quella che prevede la conquista definitiva della Cisgiordania e poi il piatto grosso: l’Iran.

Teheran si annuncia obiettivo decisamente più alla portata proprio perché con la conquista della Siria - elemento cruciale per l’Asse della Resistenza, sia dal punto di vista politico che da quello logistico e delle forniture militari - l’Iran perde la sua cintura di sicurezza esterna e anche la decapitazione della sua catena di comando militare e politica di questi ultimi anni ad opera della CIA e del Mossad, non migliora certo la situazione d’insieme. E’ vero, c’è un accordo strategico con la Russia che si riferisce anche alla sicurezza ma non prevede un’alleanza militare integrale e dunque Teheran dovrà far conto solo sulla sua forza per affrontare l’aggressione occidentale che, con Trump, vedrà una sicura accelerazione.

Adesso vedremo come si profilerà il nuovo assetto siriano, propedeutico ad un probabile regolamento di conti interno che farà scorrere sangue e silenzi mediatici. Se USA, GB, Francia, Israele e Turchia formano il convitato di pietra imperiale, due sono i soggetti in campo: l’Isis e Al-Nusra. E qual è la strategia occidentale in Siria? Chi dovrebbe governare a Damasco? Il califfato? O i fantomatici ed inesistenti jihadisti moderati, atteso che si possa definire “moderata” Al-Nusra, costola siriana di Al-queda? Più probabile che, con la scusa dell’instabilità e per scongiurare il vuoto di potere, che comporterebbe il rischio di una nuova Libia o una nuova Somalia, si decida - per esempio - di estendere l’occupazione israeliana dal Golan a tutta la Siria con una iniziale versione temporale che presto diverrebbe definitiva.

Una sceneggiatura pericolosa

Il ruolo degli Stati Uniti nella conquista della Siria è di primo piano. Sin dall’inizio dell’aggressione contro Damasco (2011) i tagliagole che combattono contro il governo siriano sono creati, armati, addestrati, finanziati e sostenuti da Stati Uniti, Israele, Francia e GB. Nulla di segreto, del resto: lo ammise nel 2019 la stessa Hillary Clinton, donna vocata ai peggiori orrori in nome del potere e lo confermarono le foto del Senatore John McCain, inviato speciale in Medio Oriente di Obama, che si riuniva con Al-Baghdadi (capo dell’Isis) in un hotel nel centro di  Baghdad per decidere insieme ai turchi forme, sigle, e tempi dell’offensiva del Califfato in Siria. Ankara aveva ricevuto il via libera per eliminare definitivamente i curdi, che però decisero all’ultimo di schierarsi con l’Occidente nella guerra contro Assad nella speranza di edificare un loro stato in una porzione di territorio siriano.

La copertura militare maggiore sul terreno è però stata data dal sultano Erdogan, che come sempre utilizza le contraddizioni internazionali come un possibile suk dove piazzare la sua forza militare ed il suo posizionamento geostrategico per esigere il massimo profitto economico e politico. E sebbene il processo di normalizzazione delle relazioni politico-diplomatiche tra Iran propongono un quadro diverso nella regione, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti pur se non direttamente impegnati come negli anni scorsi, comunque dalla fine del governo siriano intascano dividendi notevoli sotto il profilo politico e religioso.

Se infatti per i turchi la Siria rappresenta la possibilità di estendere il suo territorio e la sua influenza fino al confine con Israele, oltre che l’eliminazione sul nascere dell’ipotesi di riunificazione della diaspora kurda, per l’Arabia Saudita e gli Emirati la caduta di Assad rappresenta la fine dell’asse militare, politico e religioso con l’Iran e consegna alle monarchie del Golfo Persico il ruolo di primi attori dell’Islam. Inoltre, senza Assad e con l’indebolimento di Hezbollah e Hamas a seguito della guerra con Israele, Teheran è isolata e si riduce la sua influenza sull’Irak; di contro si assiste alla definitiva affermazione del wahabismo e dei salafiti sui sunniti siriani, maggioranza nel Paese. La Russia, dal canto suo, perde le sue uniche basi nel Mediterraneo e vede ridursi senz’appello la sua capacità d’influenza internazionale.

C’è poi da sottolineare il contributo ucraino all’assalto della Siria ed è un capitolo che si aggiunge a quello già denunciato in Africa. Ovvero siamo di fronte ad un utilizzazione di nazi-ucraini in chiave di truppe internazionali che combattono per gli interessi statunitensi nei teatri dove questi ultimi hanno bisogno di proxy. L'esempio storico è con i musulmani afghani inviati prima in Bosnia e in Cecenia e infine in Medio Oriente. Si conferma lo scopo del riarmo ucraino deciso venti anni fa e la destinazione d’uso delle sue truppe d'elite, che sembra essere quella di formazioni mercenarie a disposizione della destabilizzazione internazionale. E' da valutare quanto questo inciderà sulle decisioni statunitensi ed europee circa la chiusura del conflitto con la Russia, prima di lasciarsi andare ad ipotesi del tutto aleatorie circa la volontà di Trump di porre fine alla guerra.

Quanto avvenuto in Siria conferma i timori che emergevano circa un allargamento della guerra a tutto il Medio Oriente iniziata con lo sterminio dei palestinesi di Gaza, l’invasione del Libano e gli attacchi all’Iran. Per questo rovesciare il legittimo governo siriano, cercare una rivincita militare contro la Russia, espellerla dalla Regione serve a consegnare ad Israele un’intera, significativa porzione di Medio Oriente. E’ la messa a terra del piano di insediamento forzato della nuova entità statale sionista, che si poggia sul consenso occidentale.

L’avventurismo criminale dell’Occidente sembra confermare di voler privilegiare l’esibizione della forza a quella del Diritto. Apre quotidianamente fronti di guerra e la destabilizzazione violenta dei paesi chiave è la sua unica agenda politica. Agisce contro gli stessi precetti democratici da lui stesso stabiliti e procede a tappe forzate verso un conflitto globale per contenere la crescita e l’autonomia strategica del Sud e l’Est del pianeta. Dalla Georgia alla Romania, da Gaza fino al Libano e alla Siria, Washington, Londra e Bruxelles procedono verso il colpo di stato permanente in ogni paese dove il dominio dell’Occidente Collettivo è messo in crisi, perché preferisce un mondo in pezzi piuttosto che un mondo diverso.

Oggi celebra una vittoria occidentale nell’ambito di una guerra globale a capitoli, ma l’ossessione per una sconfitta strategica della Russia e quanto successo a Damasco rischiano di portare Mosca e Pechino a considerazioni pericolose circa la fine della politica e della diplomazia quali strumenti regolatori dei conflitti e dei diversi interessi. Potrebbe affermarsi una lettura che vede l’uso della forza quale unico linguaggio capace di costringere all’ascolto delle altrui ragioni, di fermare l’ansia demolitrice di un impero in decadenza ed al rispetto di una governance internazionale equa ed equilibrata. Non si è stati mai così vicini a decisioni di non ritorno.

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