Un reality alternativo è in programmazione per l’autunno di RAI1 ed in questi giorni sono in corso le riprese all’interno dei campi profughi del Sud Sudan e Congo. “Mission” questo il nome del reality, un programma di Tullio Camiglieri e Antonio Azzalini, racconterà il viaggio, le condizioni, i pensieri di quanti sfidano l’Odissea per fuggire dai propri paesi d’origine. Le polemiche montano con l’accusa di voler spettacolarizzare il dolore di queste persone e uno studente di Parma, Andrea Casale, ha lanciato sulla piattaforma Change.org una petizione che sta riscuotendo successo, per ora con 6 mila firme in costante aumento.



Vedere vip e vippettini, personaggi riciclati come Emanuele Filiberto o Paola Barale alle prese con problemi immani, suscita più di qualche perplessità. Se erano poco credibili ed educativi alle prese con le banalità dell’isola dei famosi e simili perché dovrebbero saper veicolare messaggi di sensibilizzazione e solidarietà al cospetto di tragedie umanitarie reali? Semmai il rischio è quello di fare melodramma a buon mercato e nulla di più. Questo dicono i detrattori del format.

Il Direttore di Rai Uno, Giancarlo Leone, e l’allora portavoce dell’Unhcr, oggi Presidente della Camera, Laura Boldrini, hanno lavorato all’ideazione del programma con grande dedizione, coinvolgendo le più grandi associazioni che si occupano di rifugiati. Non si tratterebbe di vero e proprio reality, quindi spettacolo, ma di un docu-reality in cui due nomi noti al pubblico si presterebbero a vivere in tutto e per tutto in un campo profughi, raccontando cosi attraverso la loro esperienza diretta la vita di un campo.

Niente di seducente, nulla di artefatto, soltanto la cronaca. Si tratterebbe in questo senso anche di un esperimento televisivo: un prodotto del tutto nuovo con una finalità educativa e di conoscenza molto forte. Si fa polemica sulla scelta del vip di turno, ma è anche ovvio che la scelta, per arrivare con facilità nelle case degli italiani, dovrà cadere su un volto nazional-popolare e non su un intellettuale sconosciuto ai più. Si parla di Albano, di Michele Cucuzza, del principe Savoia e di Paola Barale. I partecipanti non saranno pagati e la presenza dell’Unhcr nella realizzazione del programma è garanzia del rispetto della Carta di Roma e di tutti i principi deontologici del caso.

Il Fatto Quotidiano ha dato moltissimo spazio alle contestazioni, a quelle del web specialmente, rimproverando alla RAI di voler ridurre a spettacolo la rappresentazione di un male realissimo di migliaia di uomini, donne e bambini.

Non c’è dubbio che il dato per cui una persona seriamente impegnata come Laura Boldrini abbia dato il suo assenso all’ideazione del format è già una parziale garanzia e soprattutto non c’è dubbio che l’approvazione passi dal modo in cui è raccontata questa tragedia umanitaria. Se lo spirito fosse quello del salotto tv, della casa del Grande Fratello, dell’Isola piena di giochi, di fame finta  e di siliconi esibiti sarebbe indecente.

Ma se, come pare, lo spirito è quello di un documentario che racconta, descrive, senza edulcorare nulla e che porta nelle case delle famiglie italiane qualcosa che i più ignorano, dove sarebbe il peccato della RAI? Per una volta il canone servirebbe ad informare le persone che non leggono i giornali, che non seguono le notizie, che non approfondiscono, che cambiano canale quando si parla del Sud del Mondo. Se la faccia di qualche vip servisse a questo, perché no?

Prima o poi i tromboni di una certa cultura alternativa dovranno arrendersi all’evidenza per cui moltissime sono le persone che ignorano certi drammi e che votano e parlano in virtù di questa ignoranza. Che non tutte le persone hanno gli strumenti giusti per approfondire e comprendere certi drammi umanitari e che non a tutti si può parlare la lingua della cultura e dell’alta inchiesta giornalistica. Purtroppo ovviamente.

Si sono tollerate gare di bellezza, balletti stile Mediaset e gare di solidarietà a suon di messaggini e testimonianze lacrimose. Se insieme a tutto questo, alle ricette di cucina e alla gara di canzoni si unisce un documentario dove insieme agli occhi del vip arriva la fotografia del disagio e della sofferenza più estrema, forse qualche italiano in più comprenderà cosa significhi vivere da rifugiato, da perseguitato, senza patria e in una perenne prigione.

E magari esprimerà un voto diverso, o sarà anche solo un po’, meno ignorante. Ma la TV, quella che istruiva nel dopoguerra, non era forse nata con questa ambizione? Gli intellettuali e i dotti non hanno bisogno di essere salvati dal piccolo schermo, non sta quindi a loro emendarlo secondo i propri autoreferenziali canoni di conoscenza. Loro che leggono, vanno a teatro e frequentano i caffè letterari.

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