Il No al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari bisogna spiegarlo bene, sapendo che si va decisamente controcorrente. Prevale infatti largamente un senso comune, ben radicato e purtroppo alimentato da oggettive, valide ragioni. Parlamentari assenteisti, incapaci di fare una legge ma molto esperti a fare i lobbisti, a loro agio a fare e a essere privilegiati, non è stato certo infrequente incontrarli.
Bisogna spiegarlo bene perché in questi anni tante, troppe sono state le derive culturali in materia costituzionale. Tante, troppe, le concessioni all’antipolitica, le ubriacature di riforme costituzionali. Si è cavalcata un’onda che è cresciuta come uno tsunami. Oggi è una moltitudine che sposa le parole chiave di questo imbroglio. Ma appunto di imbroglio si tratta. E dobbiamo spiegarlo.
I parlamentari sono troppi. Prima bugia. Come riporta il Dossier del Senato e della Camera, il numero dei parlamentari in Italia non è affatto superiore agli altri paesi europei. Germania e Gran Bretagna infatti ne hanno di più. E il rapporto tra numero dei parlamentari e abitanti pone già l’Italia al 24°posto tra i paesi europei, con 1 parlamentare ogni 100.000 abitanti. Con il taglio dei parlamentari (pari al 36,5% del totale), si avrebbe un rapporto di 0,7 parlamentari per 100.000. Come dice non il fronte del NO ma l’Ufficio Sudi del Senato, l’Italia “guadagnerebbe la maglia nera”.
La riduzione di parlamentari l’hanno sempre chiesta tutti, quindi nessuno scandalo. Altra bugia. Tutte le richieste di riduzione dei parlamentari, più o meno condivisibili, sono state sempre sostenute da argomentazioni, legate alla ricerca di difendere o migliorare la rappresentatività e le prerogative parlamentari. Qui invece, nulla. Come sono stati fatti i conti? Alla Camera si taglia da 630 a 400 deputati (che significa da 96.000 abitanti per deputato a 151.000). Al Senato si taglia da 315 a 200 senatori (che significa da 188.000 abitanti per senatore a 302.000). Ma perché si taglia così? Nessuna spiegazione. Tagliare e basta, una riduzione “a casaccio”.
Via i fannulloni, avremo più qualità degli eletti, più efficienza. Altra bugia. La riduzione della quantità non comporta certo automaticamente una maggiore qualità. E parlare di più efficienza, che si intende? Più leggi? Ma tutti dicono che semmai in Italia le leggi sono troppe. Più in fretta? Se ci sono divisioni e contrasti che ritardano i tempi della decisionalità legislativa non dipende ovviamente dal numero dei parlamentari, ma dalla politica dei partiti. E invece con questo taglio dei parlamentari sarebbero indebolite le funzioni parlamentari non solo legislativa ma anche ispettiva e di controllo, oltre a non migliorare in alcun modo il rapporto tra Parlamento e governo. Poiché il 90% delle leggi è di origine governativa, la riduzione dei parlamentari nulla cambierebbe su questa invadenza della decretazione d’urgenza.
Il Parlamento funzionerà lo stesso, basterà cambiare i regolamenti. Anche qui, porte spalancate alla retorica e alla ideologia dell’efficienza, come se il Parlamento dovesse funzionare come un consiglio di amministrazione. Meno persone a decidere, più facili le decisioni. Non importa se le minoranze non potranno più essere rappresentate nel lavoro delle commissioni (che saranno necessariamente accorpate) e quindi influire sui processi decisionali del Parlamento. Si consolida un pensiero da tempo sostenuto, purtroppo anche a sinistra, che la democrazia non deve tanto rappresentare, quanto invece funzionare. Il mantra della stagione delle riforme istituzionali e costituzionali è stato che la democrazia è “malata di conflitto” e quindi le riforme devono promuovere tutti i meccanismi possibili per una “democrazia decidente”, per garantire governabilità e stabilità, senza contrappesi nella rappresentatività. Leggi elettorali maggioritarie, riduzione dei parlamentari, abolizione al finanziamento pubblico ai partiti: lo scollamento dei cittadini dalla politica ha continuato a crescere.
Si tagliano i costi inutili. Ma quanto sarebbe il risparmio?Ancora gli Uffici Studi del Senato e della Camera ci danno le cifre: 0,007% della spesa pubblica, 57 milioni l’anno. Che è pari al costo di un caffè l’anno per abitante. Senza toccare la Costituzione non sarebbe stato più efficace parlare della riduzione degli emolumenti? E magari non solo dei parlamentari, ma anche dei super manager e dirigenti? Riducendo così non solo un po’ di costi ma soprattutto un po’ di disuguaglianze?
Ma si sa, l’enfasi sulla riduzione dei costi della politica è un vecchio cavallo di battaglia, che paga. Negli anni è stata alimentata una demagogia populista, che incolpa la politica, i suoi costi, che ha portato alla cancellazione del finanziamento pubblico dei partiti - votato anche dalla sinistra - come se questo potesse essere il vero argine contro la corruzione e per il rinnovamento sano della vita dei partiti. L’esito è stato l’opposto: sono cresciuti i condizionamenti delle lobbies ai partiti, diventati meno liberi e incapaci di svolgere il loro ruolo costituzionale di rappresentanza. L’esito è stato una profonda torsione democratica, rendendo la politica sempre più costosa e soltanto alla portata di chi se lo può permettere. Non certo una moderna svolta democratica.
Non si riduce la democrazia rappresentativa. Grande bugia. È chiaro infatti che riducendosi il numero complessivo degli eletti aumenta il numero di elettori che sono necessari per eleggere un parlamentare. Saranno penalizzate le regioni medio piccole, con meno densità di popolazione. E non certo la Lombardia ma ancora una volta il Sud. Saranno soprattutto esclusi dalla rappresentanza politica i partiti minori con grave danno al pluralismo politico e al ruolo delle minoranze e dell’opposizione. Se in Parlamento sarà monca la rappresentanza di bisogni, ideali, visioni del mondo diverse, che si confrontano e magari si scontrano, anche la natura democratica delle istituzioni sarà ferita. Si accetterà come fisiologico quello che è invece è il sintomo più grave del distacco dei cittadini dalla politica: l’astensionismo.
Meno parlamentari, ma comunque tanti eletti regionali. Come a dire: i rappresentanti eletti nei consigli regionali possono comunque benissimo ovviare alla riduzione degli eletti al Parlamento, la rappresentanza non diminuisce, la rappresentanza nei consigli regionali compensa quella al Parlamento. Basterebbe un po’ di studio di diritto costituzionale per sapere che non è così. I parlamentari sono titolari della sovranità popolare intesa come nazionale, avendo quindi una funzione nazionale e non legata alla rappresentanza di interessi locali. La stessa modifica del titolo V della Costituzione differenzia le funzioni nazionali da quelle regionali, affidando a ciascun livello istituzionale compiti specifici, entrambi non sostituibili.
Aumenterà la democrazia diretta. Quale? Uno uguale uno? E come? Quella basata soltanto sui referendum propositivi? Oppure quella della rete, o peggio della piattaforma Rousseau, che garantisce di farsi candidare - o diventare pluriministro- con pochi click? “Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno” è stata la loro parola d’ordine. E stanno alimentando un antiparlamentarismo che fa vincere il populismo senza popolo.
La vittoria del Sì costringerà finalmente a fare un’altra legge elettorale. E perché allora non si è fatta, prima o comunque insieme alla modifica costituzionale? E comunque, quale legge elettorale sarà? Sarà proporzionale? E con quale soglia di sbarramento? La riduzione dei parlamentari senza una legge elettorale chiara e coerente non permetterà neppure il “diritto di tribuna” per le forze minori, per i partiti di opposizione. E il Parlamento perderà il valore costituzionale di essere e rappresentare lo “specchio del paese”, fondamento della cultura democratica che considera il conflitto sociale come motore. La rappresentanza del conflitto sociale sarà del tutto espunta. Ancora, populismo senza popolo.
Mandiamo a casa la casta. Questa è la più rilevante bugia, soprattutto perché questo è stato e continua a essere il leit motiv del populismo, dell’antipolitica, dell’antiparlamentarismo. In realtà il taglio dei parlamentari, rimanendo questa legge elettorale che fa eleggere solo parlamentari nominati, lascia totalmente in mano alle segreterie dei partiti il potere di decidere chi eleggere. Siccome ci saranno meno eletti, saranno scelti i più fedeli, i più obbedienti. E gli eletti si sentiranno responsabili soltanto verso i vertici: il loro futuro politico dipende infatti non certo dagli elettori ma dai capi. Sarà un Parlamento di yes men, obbedienti e obbligati a rispettare le direttive dei partiti. I 5 Stelle questo esattamente vogliono e lo esplicitano quando nella loro propaganda attaccano l’articolo 67 della costituzione che recita “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Il parlamentare è libero da ogni condizionamento perché è il rappresentante della “nazione-popolo” nel suo insieme, il depositario della sua intera volontà sovrana. I 5 Stelle (che pure declamano di volere la democrazia del popolo) accantonano il principio costituzionale “la sovranità appartiene al popolo” per garantire che l’eletto risponda sempre e comunque a Casaleggio o a Grillo, magari alla Rete, ma non alla sua coscienza libera. Altro che democrazia diretta, altro che eliminazione della casta!
E infine il tema della rappresentanza di genere, completamente oscurato nel dibattito referendario eppure fondativo per definire la qualità della democrazia e della rappresentanza. Le donne, escluse per secoli dal potere, hanno sempre pagato, in termini di possibilità di essere rappresentate e di rappresentare, ogni restrizione della democrazia, della crescita del potere degli esecutivi, del valore del voto. Oggi, la riduzione del numero dei parlamentari, senza nessun contrappeso, senza nessuna riforma del Parlamento, rischia di essere l’ennesima tagliola, l’ennesima trappola per chi non ha potere, per chi deve forzare i soffitti di cristallo. E le donne che riescono a essere elette (anzi, prima nominate e quindi elette) chi saranno? Sono per esempio abbastanza numerose le donne di destra oggi al Parlamento, espressione comunque di una spinta positiva alla partecipazione delle donne alle cariche elettive e persino di una capacità delle destre di intercettare spinte di autopromozione e di emancipazione (talvolta più della sinistra).
Ma in questo protagonismo resta un'ambivalenza che è il segno di un'operazione culturale regressiva e insidiosa che passa attraverso il genere.
La rappresentanza delle donne di destra esprime l'intreccio tra modernità e restaurazione che sempre abbiamo denunciato nella politica delle destre. Queste parlamentari restano “ancillae domini”, funzionali alla forma inedita di patriarcato che rifunzionalizza il genere con le politiche liberiste, familistiche, con le appartenenze identitarie legate al sangue ed al territorio. Quello che serve allora è certo avere tante donne, più donne elette, ma soprattutto garantire la rappresentanza politica del genere. Per entrare in Parlamento ci vorranno più soldi, più appoggi, più potere. E chi è debole, chi è autonomo, chi è libero, chi è differente avrà davanti una strada più dura. La rappresentanza politica del genere resterà residuale se non cambiano i partiti, se non cambia la politica, soprattutto se democrazia e rappresentanza resteranno ancora luoghi e strumenti della lobby trasversale più potente, quella degli uomini.
Quindi, in conclusione, a che serve questa riduzione dei parlamentari? Invece di tagliare i costi, si taglieranno le minoranze. Invece di rendere il Parlamento più efficace, lo si renderà ancor più distante e sordo. Invece di restituirgli credibilità, avremo un parlamento con meno differenze, con meno libertà. I cittadini continueranno a non poter scegliere, si intossicherà ancor più la vita interna dei partiti e la casta resterà. Il taglio dei parlamentari è un imbroglio e una battaglia sbagliata. Il No è un dovere costituzionale.