Un giorno come tanti che si rivelò diverso dai tanti. In quel 12 Dicembre del 1969, insieme all’ordigno esploso nella Banca Dell’Agricoltura di Milano, la convivenza civile deflagrò per sempre nella memoria storica di questo Paese. Fu una strage fascista, come fasciste furono le peggiori stragi degli anni a venire. La contabilità dei morti, spaventosa, divenne infatti, rapidamente, solo l’inizio di una scia di vittime che la strategia della tensione addossò al futuro e alle speranze italiane. La strategia della tensione ebbe molti protagonisti: servizi segreti più o meno deviati e squallidi questurini abili nel depistaggio; manovalanza fascista minoritaria e maggioranza silenziosa spalmata sul potere.

 

 

Non veniva dal nulla: già negli anni ’60 il Sifar e De Lorenzo, Pacciardi e Borghese, si erano presi la briga di ricordare che la vittoria della Resistenza antifascista non poteva e doveva considerarsi definitiva. E che, quindi, le conquiste democratiche ed il patto costituzionale che generarono la Costituzione della Repubblica, non potevano proseguire in vigenza davanti ad un contesto socio-economico nuovo.

 

Ma, soprattutto, la strategia della tensione non era orfana, bensì figlia illegittima dei settori più oltranzisti degli Stati Uniti che, nel controllo assoluto sull’Italia, non prevedevano nemmeno minime aperture politiche; misuravano con il ferro e il fuoco l’applicazione decisa del trattato di Yalta.

 

Il terrore è come un’azienda: ha i suoi funzionari solerti e la sua manovalanza. Ma ha, per così dire, una propria ragione sociale, un proprio agire finalizzato agli scopi che si prefigge. Bisogna quindi inquadrarlo nel contesto di quel tempo se si vuole tentare di comprendere quanto con gli occhi di oggi potrebbe risultare privo di logica e di ragione.

 

L’Italia che stava per conoscere la stagione più buia della sua democrazia vedeva il boom economico che si accompagnava all’industrializzazione del Paese e la scolarizzazione di massa irrompeva nel feudo dell’istruzione riservata alla classe media. Nascevano nuove figure e nuove rivendicazioni. Non erano solo rivendicazioni salariali: mettevano in discussione il modo di produzione, il ruolo della classe operaia, il suo controllo sulla produzione e la sua centralità nella rappresentanza sindacale e politica.

 

Nasceva la sindacalizzazione di massa e anche la voglia di rappresentarsi da soli, senza la mediazione dei sindacati. Trovarono un alleato naturale negli studenti, che mandavano in soffitta un’istruzione fondata su nozioni e su una divisione di ruoli nel mondo della formazione che vedeva gli studenti vittime silenti della riproposizione di una cultura di classe. Il PCI divenne il più forte partito comunista d’Occidente e la sinistra extraparlamentare mordeva le caviglie del sistema e, spesso, anche quelle del PCI.

 

La crescita della sinistra, sociale e politica, metteva insomma in discussione nel profondo l’assetto politico italiano. Gli operai e gli studenti, sulla scia del ’68 francese, impararono a rovesciare la clessidra della storia: rivendicarono un ordine nuovo, ruoli diversi, ambizioni di partecipazione ben più alte di quelle cui sembravano destinati da una società rurale, figlia di gerarchie e di ruoli non più sopportabili.

 

Fu una spinta formidabile: la ribellione, da questione generazionale, diventò questione generale. La sinistra divenne l’orizzonte, lo sbocco naturale che presto divenne persino senso comune. Non a caso nella metà degli anni ’70 videro la luce lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, la legge sul divorzio, la riforma della scuola. L’opposizione governava dal basso e, come ebbe a dire Andreotti, “senza l’assenso del PCI alla Camera non si possono fare nemmeno gli auguri di Natale”.

 

Sono gli ambienti più oltranzisti della NATO e i loro tirapiedi nazionali a decidere che quell’insorgenza contagiosa andava fermata. Che l’Italia dovesse conoscere il terrore, antitodo per eccellenza alla spinta alla partecipazione; la paura di cambiare quale miglior freno alla contestazione del sistema. Con la strategia della tensione la politica, intesa come dialettica tra la rappresentanza degli interessi diversi e distanti, come forma pubblica ed ideologica del conflitto di classe, veniva colpita profondamente dai poteri occulti, presto diventati il centro di potere per eccellenza. Se gli ultimi tentavano di arrivare primi, i primi si davano da fare per lasciarli ultimi; la strategia della tensione, é stata, in primo luogo, la lotta di classe in forma di terrore, voluta dai primi contro gli ultimi.

 

Si dice che una generazione di militanti della sinistra di classe perse, quel maledetto 12 Dicembre del ’69, la propria innocenza. Alcuni non condividono questa valutazione, ritenendo che, con o senza la stagione del terrore, l’ansia rivoluzionaria che permeava migliaia e migliaia di militanti, prevedeva comunque uno sbocco di tipo armato nello sviluppo della sua iniziativa politica.

 

Forse è vero: ma, più probabilmente, il ricorso all’uso della forza era figlio dell’esperienza che veniva da tutti i conflitti che, internazionalmente - e, da allora, anche internamente - dimostravano come le classi dirigenti non fossero disponibili a cedere il loro comando sulla base delle regole democratiche. Per chi ha vent’anni oggi, può sembrare fantascienza, cattiva letteratura. Perché oggi possono vincere Obama o Lula, può darsi l’alternanza tra simili o diversi; ma allora no, nessuna dialettica che non si fondasse sulla forza era ipotizzabile. La guerra fredda imponeva due campi nemici irriducibili, incapaci ed impossibilitati a mediare tra loro.

 

Quel che comunque è certo, è che lo stragismo e la violenza fascista resero più urgente per la politica, cioè per la loro vittima designata, il tema della sua organizzazione. Tutti, ma proprio tutti, i partiti e i sindacati, diedero valore e risorse alla loro difesa, per garantirsi la propria sopravvivenza politica e non solo. Le regole democratiche saltarono: soccombere o difendersi, questo era il tema stabilito dal restringimento degli spazi democratici, dell’agibilità politica di tutti, involontariamente coinvolti o protagonisti attivi che fossero. E’ qui, in questo collo di bottiglia, che la democrazia ha perso.

 

Quando una o più generazioni trovano sulla strada del cambiamento il bivio tra armi e politica, la democrazia ha già perso. La rappresentazione scenica di una guerra simulata, propinata dalle organizzazioni armate tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, fu solo la tragica fine di un’impazzimento ideologico e dogmatico che, delle lotte di massa e della speranza del cambiamento, furono avversari.

 

A quaranta anni di distanza, i processi per la strategia della tensione sono polvere negli archivi della memoria. Ciò che però si può affermare, senza tema di smentita, è che grazie all’impegno di quella generazione di rivoluzionari, ipotetici o conclamati che fossero, una buona parte delle menzogne di Stato sono state rigettate. La controinformazione, straordinario prodotto della collaborazione tra il quotidiano Lotta Continua e giornalisti, intellettuali, “gole profonde”, esponenti politici, avvocati e magistrati democratici, ha permesso di smascherare le responsabilità tremende dei settori più reazionari dello Stato e di tirare fuori dalla galera innocenti, pur non riuscendo a metterci dentro la maggior parte dei colpevoli.

 

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