La Sinistra, o almeno la parte più viva di essa, ha dato il via all’analisi autocritica del risultato elettorale, mentre in apparenza, da parte del Partito Democratico - pure il grande sconfitto - non si hanno segnali di riflessioni che possano produrre analisi nuove o inversioni di rotta. Per adesso l’elemento significativo, almeno sul piano simbolico, è il trasloco dal Loft alla sede della Margherita nel pieno centro di Roma. E’ possibile che siano concentrati sui ballottaggi ancora da celebrarsi, ma le prime polemiche con l’Italia dei Valori da un lato e sull’ipotesi di Partito del Nord dall’altro, sembrano indicare che, dopo la sonora batosta patita, il PD potrebbe tornare, con modi e tempi che si delineeranno con maggior chiarezza nelle prossime settimane, agli antichi fasti delle arene. I sommovimenti tellurici, che già da queste ore sembrano agitare il partito nato in cattività, fanno presagire un clima interno che, dopo il secondo turno delle Amministrative, soprattutto se a Roma dovesse prevalere il fascista Alemanno, potrebbe diventare difficile.

Le cronache indicano che Di Pietro si sgancia, riconfermando la provvisorietà delle sue scelte, costante della sua vicenda prima in magistratura e poi in politica. Si aggiungono le critiche dei “dalemiani”, con il senatore Latorre che, in una intervista a L’Unità parla apertamente di “fine del partito liquido” e aggiunge che “il confine tra vecchio e nuovo si è rivelato una categoria politica del tutto inadeguata”. Si fa notare poi, sempre da ambienti “dalemiani”, che la candidatura di Veltroni è risultata persino meno redditizia di quella di Rutelli nel 2001, perché non ha rimontato e invece ha perso voti”. Poi è il turno di Bersani, che sulle nomine dei capigruppo di Camera e Senato apre un vero e proprio fuoco di sbarramento sulla titolarità della decisione, che Veltroni vorrebbe assumere in beata solitudine. Sullo sfondo, la contesa tra ex-Ds ed ex-Margherita: la prima dopo il voto, presumibilmente destinata ad essere apripista di un redderationem più ampio, che potrebbe rimandare anche ad un esame severo dell'operazione politica, che davvero non é stata una cavalcata esaltante.

Il famoso sfondamento al centro, con l’erosione della destra moderata non c’é stato, tutt’altro. C’è stato invece il prosciugamento della sinistra, il cui elettorato del resto, era già sufficientemente disamorato dall’inutile quanto furbetto appiccicaticcio dell’Arcobaleno, le cui liste somigliavano molto alla pianta organica del funzionariato dei rispettivi partiti. Il vertice del PD potrà anche continuare a sostenere - a scanso della matematica e del buon senso - che la separazione dalla sinistra è stata una buona idea, ma il risultato finale resta quello di un solco tra lo schieramento democratico e progressista e quello conservatore-reazionario che, per ampiezza e prospettiva, è tra i più grandi nella storia della Repubblica. Per trovare un risultato peggiore bisogna tornare al ’48.

Hai voglia a dire che il distacco previsto dai sondaggi si è ridotto della metà o che nessuno poteva prevedere lo smottamento elettorale che si è avverato. Il fatto è che i voti del PD sono sostanzialmente gli stessi - quando non inferiori - della somma dei voti ottenuta nel 2006 rispettivamente da Ds, Margherita, IdV e Radicali: l’elemento di novità che doveva rappresentare non è quindi stato colto dagli elettori e le prospettive di opposizione per cinque lunghi anni rendono difficile ipotizzare il mantenimento in vita del contenitore, almeno così com’è stato concepito.

Proprio l’impossibilità di perpetrare l’ambiguità delle risposte sui temi più diversi, che ha caratterizzato la campagna elettorale, non potrà più essere riproposta. Dall’opposizione, il Partito democratico dovrà invece, ogni giorno, schierarsi, proporre, rifiutare o accettare, senza nemmeno la capacità di dettare l’agenda politica. Ma proprio questo determinerà fratture al suo interno. In questo senso il PD è già incanalato, in una prospettiva a medio-lungo termine, verso un binario morto. Perché nell’ambizione di tenere insieme ciò che insieme proprio non ci sta, sconta diverse schizofrenie, prima fra tutte quella di presentare un’operazione aritmetica come se fosse un progetto politico.

L’impressione è che si tratti invece di una scommessa di potere, vestita con una tunica spessa che serve a nascondere l’assenza di qualunque riferimento culturale, filosofico, ideale; l’assenza totale, cioè, di un’identità politica e progettuale. Nell’ansia di de-ideologizzare, emerge un’idea della politica che non prevede un progetto di società, non accenna nemmeno ad una lettura critica del sistema ed interpreta il ruolo del partito come contenitore di ogni spinta, per variegata che sia. Tutto insomma, ma anche niente.

In ogni caso conferma di essere un’operazione sbagliata nel contesto sbagliato, anche solo volendola leggere sotto le possibili performance elettorali. E’ chiaro infatti, che il range possibile del Partito democratico si attesta tra il 31 e il 40% dei voti. Ora, sul piano squisitamente tecnico, nella prima Repubblica, con un sistema elettorale proporzionale, se una quota che oscillava anche solo al 30% dei voti era in teoria sufficiente per provare - con una politica accorta di alleanze - a governare, così non può essere oggi con un sistema elettorale di tipo bipolare. Almeno fino a quando non entrerà in vigore una legge elettorale che preveda il pessimo premio di maggioranza, le possibili alleanze successive al voto non offrono nessuna certezza e il bipolarismo imperfetto assegna identiche possibilità ai due poli di scegliere, in caso non arrivi nessuno al 51%, le alleanze possibili.

Alleanze che, peraltro, sono raramente praticabili, visto lo sbarramento elettorale al 4% che riduce enormemente lo spazio di agibilità politica per chi è fuori dai due poli. Se si capisce quindi come mai Veltroni abbia sposato il referendum di Guzzetta e soci, meno si capisce per quale motivo la nuova maggioranza parlamentare dovrebbe rimanere inerte e veder finire in soffitta il “porcellum”, che in due volte ha impedito prima al centrosinistra di governare e poi ha fatto vincere largamente la destra.

Berlusconi, è facile prevederlo, difenderà questa legge elettorale sostenendo che offre stabilità; dirà che l’unica instabilità viene dalla mancanza di voti, non dai meccanismi della legge elettorale. Ha una larga maggioranza che gli consentirà, se vuole, di apporre solo piccole modifiche utili unicamente a scongiurare tecnicamente il referendum. E comunque, anche con un premio di maggioranza come quello disegnato dai referendari (devastante ed anticostituzionale), non è detto che una coalizione “escludente” come il PD abbia la meglio su una “includente” come il Pdl.

Insomma, il PD rischia di poter solo perdere, non vincere. Perché per quanti sforzi faccia per accreditarsi come la nuova Balena bianca di democristiana memoria, lo spazio è già occupato da una destra peronista, che, in una oscena miscela di populismo e liberismo, conferma l’orientamento generale dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. E se con il sistema proporzionale il Pci, (con il 34% dei voti al suo massimo risultato storico, ma con una oscillazione continua tra il 28 e il 33%) anche dall’opposizione poteva determinare le scelte più importanti sull’assetto giuridico e socioeconomico del Paese, fino a riuscire a “governare dal basso”, con il sistema bipolare ciò, semplicemente, non è possibile. Hai voglia a ripetere slogan stantii quanto inutili come il “governo ombra”: mai come oggi, non solo non é l’ombra di un governo, ma neanche l’ombra di una proposta. Era questo il nuovo che avanzava?

Dalle urne è invece uscito un verdetto che indica nel PD un progetto non in grado di puntare con successo al governo del Paese. A fronte di un vento di destra che soffierà per diversi anni, c’è un partito-contenitore che potrà riunire in prospettiva persino meno di quanto ha raccolto oggi, perché le culture di provenienza che lo abitano, divenute compatibili grazie ad un esercizio continuo di rimozione della propria cultura da parte degli ex-Ds – si pensi anche solo ai temi etici, ai diritti civili - diverranno convivenze impossibili a fronte di mancate vittorie. Il Pd diverrà, in prospettiva, una forza di centro con una quota elettorale stabile troppo grande per essere solo opposizione e troppo piccola per governare. Un fattore “K” che, trent’anni dopo, si ripresenta con tutta la sua insopportabile quanto rinnovata vigenza.

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