di Roberta Folatti


Mohammad Ahmadi è un regista iraniano quarantaquattrenne, che nell’ultima edizione del Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, che si svolge ogni anno a Milano, ha vinto il premio assegnato dal pubblico con il film Il poeta della spazzatura.
Malgrado l’apprezzamento degli spettatori, il film non ha ancora trovato una distribuzione e rischia, come tante altre pellicole interessanti, di rimanere “inedito”. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Ahmadi, che è autore anche di libri e reportage fotografici che raccontano il suo paese.
Un ringraziamento va alla preziosa traduzione di Pirooz.
Come descriverebbe il suo film, “Il poeta della spazzatura”, a coloro che non hanno avuto la possibilità di vederlo?
Prima con una breve poesia:
lettere d’amore,
separare una foglia dall’albero,
la conoscenza di uno spazzino con un poeta>
Il mio è un film in lode alla poesia, all’amore e alla vita. La vita senza gli estremi politici di destra e di sinistra. La storia si svolge in un’atmosfera totalmente politica, in un periodo in cui la situazione era resa soffocante dalla presenza da un gruppo estremista che terrorizzava gli scrittori e i poeti oppositori, arrivando anche ad ucciderli. Uno spazzino, tramite le immondizie che ogni sera raccoglie, scopre i segreti custoditi dentro le case e viene coinvolto nelle avventure sentimentali e sociali che avvengono in esse.

Com’è nata l’idea del film?
Ho sempre avuto la passione per il cinema e per la regia, ma ho cominciato in qualità di direttore della fotografia e direttore di produzione con registi come Mohsen Makhmalbaf, Abolfazl Jalili, Samira Makhmalbaf, Marziyeh Meshkini, Ali Shah Hatami. Però coltivavo l’idea di dirigere un film, così un giorno mi sono deciso seriamente. Mi hanno proposto diverse sceneggiature ma nessuna mi convinceva, finche non ho parlato con Makhmalbaf, che mi ha sottoposto ben venticinque progetti chiedendomi di sceglierne uno. “Scegli quello che preferisci e io ti scrivo la sceneggiatura” mi ha detto, il prescelto è stato “Il poeta della spazzatura”.

Che cosa ha imparato facendo il direttore della fotografia di un grande maestro come Makhmalbaf?
L’ho conosciuto durante la lavorazione del film “Gabbeh” e la nostra collaborazione e amicizia continua tuttora. Intorno al 95’, 96’ Makhmalbaf aveva organizzato delle lezioni rivolte alla sua famiglia a cui ho partecipato anch’io. Ho imparato tante cose da lui. In queste lezioni, oltre che di cinema, si parlava di filosofia, misticismo, economia, gestione amministrativa. Mentre giravo il mio film, Makhmalbaf era occupato in Tagikistan a dirigire “Sesso e filosofia” e non è riuscito nemmeno una volta a venire sul mio set a darmi dei consigli. Ho cercato di mostrare il mio punto di vista, nonostante la sceneggiatura fosse sua. Ognuno di noi ha un suo particolare sguardo, un proprio punto di vista.

Il suo paese, l’Iran, è una fonte di ispirazione?
L’Iran è un paese talmente ampio che, nello stesso momento, ci possono essere le quattro diverse stagioni, quindi dal punto di vista culturale è assai variegato. In Iran vivono diverse etnie, se hai gli occhi aperti e ti guardi bene intorno trovi sicuramente molta ispirazione.

Quanto è difficile lavorare in Iran?
In ogni paese fare film comporta delle difficoltà, l’Iran non fa eccezione. Ci siamo abituati alla particolare situazione iraniana e i problemi che nascono cerchiamo di affrontarli al meglio.

Gli spettatori del Festival del cinema africano, d’Asia e d’America Latina hanno scelto il suo film, è nata una comunicazione speciale col pubblico italiano?
Credo che gli spettatori italiani siano intelligenti, il film l’hanno guardato con tanta attenzione e del resto la storia è molto umana, universalmente comprensibile – in ogni paese esiste lo spazzino ed esistono la destra e la sinistra, in Italia più che in altri luoghi.
Gli italiani sono riusciti a percepire nel migliore dei modi il senso del film. Io ho cercato di non allontanarmi dalla realtà della vita, dalla profondità del reale. Il neorealismo è nato in Italia e il mio film è vicino alle opere neorealiste. Anche per questo credo che gli italiani l’abbiano apprezzato. In più c’è una storia d’amore, che parla un linguaggio universale, comune a tutti i popoli del mondo.

Lei è anche fotografo, ha pubblicato libri fotografici e fatto delle mostre. Che soggetti predilige?
Mi sono avvicinato al cinema come direttore della fotografia e nel frattempo ho preso la laurea in Fotografia all’Università di Tehran. Attraverso le immagini mi interessa raccontare la realtà sociale, i problemi che la gente incontra quotidianamente. Gli eroi dei miei film vengono scelti tra le persone comuni e il pubblico si identifica facilmente con questi eroi, trova canali di comunicazione.

Le immagini quanto possono essere importanti?
Cinema vuol dire immagine, per poter comunicare con gli spettatori bisogna parlare attraverso delle belle immagini. Secondo me un film è in grado di creare un buon canale di comunicazione con gli spettatori se tutte le sue componenti, dalla sceneggiatura ai dialoghi agli attori, sono al servizio dell’immagine, senza che nessun elemento prevalga sull’altro. Non bisogna mai ignorare la magia dell’immagine.

Il sito del regista è:
www.ahmadi.ws




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