di Fabrizio Casari
Il campionato ha già pronunciato il suo verdetto finale, almeno per quanto riguarda lo scudetto. Il Milan è campione d’Italia. Con due giornate d’anticipo sulla fine del torneo, il pareggio conseguito contro una Roma ben al di sotto di quanto sarebbe stato necessario per fermarne la corsa, ha sancito la conquista dello scudetto numero 18. In attesa di vedere come le prossime due partite decideranno definitivamente chi andrà in Champions, chi in Europa league e chi, invece, in serie B (oltre a Bari e Brescia) è bene soffermarsi su chi ha vinto e su chi non c’è riuscito, nonostante gli alti e bassi delle quotazioni alternatesi lungo il corso della stagione.
La squadra di Allegri ha raggiunto un traguardo che inseguiva da sette anni, cioè da prima di Calciopoli. Un risultato che, seppure prestigioso e certamente meritato, è sembrato il minimo indispensabile per una squadra che aveva inserito nel suo organico giocatori come Ibrahimovic, Robinho e Boateng, ai quali poi aveva aggiunto a Gennaio Cassano, Van Bommel ed Emanuelson. Sei uomini nuovi, cioè una squadra nuova rispetto a quella degli anni precedenti. Il suo allenatore, Allegri, segue quindi la tradizione degli esordienti vittoriosi - da Rocco a Capello, da Sacchi ad Ancelotti, a Zaccheroni - che vede nella società di Milanello un ottimo score.
Che il Milan avrebbe vinto era apparso facile pronostico già nell’estate scorsa, anche solo un’ora dopo l’acquisto di Ibrahimovic, cui seguì quello di Robinho. La tradizione del fuoriclasse svedese è stata dunque confermata: in Europa non si va da nessuna parte, ma in Italia, con Zlatan, si vince sicuro. Non tutto è stato semplice e anche gli infortuni hanno pesato non poco sulla stagione milanista, che non ha mai visto, del resto, un distacco di punti enorme con chi lo seguiva. Ha quindi acquisito ulteriore importanza l’aver arricchito la rosa con giocatori che, per qualità e quantità, avrebbero cambiato il destino di diverse squadre.
Allegri, che per la prima volta si troverà con un trofeo da esibire, ha avuto il merito di costruire una compagine che è molto diversa da quella che avrebbe voluto il padrone, tutta spettacolo, frizzi e lazzi. Nessuno spettacolo s’è intravisto nel gioco. Allegri ha invece privilegiato una squadra ben messa in campo, con due o addirittura tre medianacci davanti alla difesa e un costruttore di gioco per innescare le due punte. Risultato è che il Milan è la squadra meno battuta e, indi, la più vincente. Insomma, Allegri ha confermato che in Italia si vince giocando all’italiana, con molta grinta e piedi buoni, più che con la fantasia di singoli.
Dunque la vittoria del Milan è riuscita ad interrompere il ciclo quinquennale delle vittorie interiste. Del resto, se il Milan, come detto in precedenza, ha praticamente smontato e ricostruito il suo organico, l’Inter ha fatto esattamente il contrario. Vendere Balotelli e non sostituirlo è stata una mancanza grave, alla quale si è aggiunta la sciagura di dover rinunciare per tutto il campionato a Walter Samuel e, per altre ragioni, a Diego Milito. Solo un miracolo avrebbe potuto rendere la squadra campione di tutto capace di ripetersi senza rinfrescare il suo organico e, anzi, rinunciando ai tre giocatori sopra citati. E quanto soprattutto l’assenza di Samuel abbia pesato, lo raccontano i numeri: il Milan ha vinto non perché abbia segnato di più, anzi; l’Inter ha segnato quattro gol in più, fino ad ora. Il Milan ha vinto per aver incassato 17 gol in meno. Insomma ha vinto con la solidità del reparto arretrato, non con l’attacco delle stelle.
L’Inter ha pagato innanzitutto la disastrosa gestione Benitez, che alla fine del girone d’andata aveva portato i nerazzurri a -13 dai rossoneri, in settima posizione in classifica. Ora si discuterà se sarà o meno Leonardo a guidare la squadra nel prossimo anno e se dispone della competenza ed autorevolezza necessarie per un rilancio della squadra. Ma oltre ad aver dato vita ad una rimonta spettacolare, l’Inter con Leonardo ha vinto 11 partite su undici a San Siro. Un aspetto di cui sarà bene tener conto.
Il gruppo Inter va ritoccato e ringiovanito. Non rifondato. Altrimenti non si spiegano i 25 punti guadagnati nei secondi tempi rispetto al risultato dei primi e le 33 reti su 62 segnate nell’ultima mezzora di gioco. Il bilancio in campionato con Leo del resto parla chiaro: 21 gare, 16 vittorie, 1 pareggio e 4 sconfitte. Ma sarebbe davvero buffo parlare di un Inter in tono minore. I nerazzurri, infatti, sono ancora tra le squadre da invidiare. Infatti, anche quest’anno, hanno già vinto due coppe, la Supercoppa italiana e il Mondiale per Club, e con l’eventuale vittoria della Coppa Italia sarebbe di nuovo un triplete; che seppur in tono leggermente minore, rimarcherebbe comunque come sia l’unica squadra italiana ad aver messo in bacheca tre titoli nella stessa stagione.
Se poi si vuole fare un ragionamento a più ampio respiro, allora si può vedere come dal 2004-2005, la squadra di Moratti ha collezionato ben 14 trofei (15 se arrivasse la Coppa Italia). Il Barcellona, la squadra stellare che tutti ammiriamo, ne ha collezionati 14, che saliranno a 15 in caso di conquista della Champions e a 16 con la vittoria della Liga. Il Manchester United di trofei ne ha cumulati 13, che diverranno 14 se vincerà la Premier League e 15 in caso di vittoria anche della Champions. Dunque, sarebbe bene, quando si parla di crisi del calcio italiano, tenere anche in debito conto che l’Inter è stata comunque nelle prime tre posizioni del calcio europeo per titoli conquistati. Solo un’inguaribile, patologico odio di commentatori e tifosi orfani del sistema Moggi può disconoscere regolarmente questo dato. I numeri, però, hanno la testa più dura di quella delle vedovelle di Calciopoli.
Per la Roma, invece, la mancata vittoria con il Milan rende la corsa alla Champions più complicata. Una squadra che, all’inizio del torneo, era accreditata di ben altre possibilità, dato non solo il valore del suo organico, ma anche perché, per la prima volta negli ultimi anni, si evidenziava una panchina di tutto rispetto. Quello della panchina corta, cioè della mancanza di alternative ai titolari in caso dì infortuni, stanchezza o squalifiche, era stato infatti il leit-motiv delle analisi sulla Roma negli anni passati. Si riteneva, non senza fondamento, che la differenza sostanziale con l’Inter che la relegava regolarmente al secondo posto, veniva soprattutto dall’ampiezza dell’organico a disposizione, più che dal valore dello stesso. Forse era un’analisi eccessivamente benevola verso i giallorossi e riduttiva verso i nerazzurri, ma il dato da cui partiva era inoppugnabile.
Ebbene, quest’anno la Roma, con l’arrivo di Borriello, Simplicio, la riconferma di Brighi e il rientro di Rosi, si trovava ad avere un’organico di panchinari di qualità. Sono state invece la crisi societaria, la rottura dello spogliatoio con Ranieri e l’ennesima riproposizione della contrapposizione tra Totti ed ogni altro centravanti - che ha di fatto confinato Borriello in panchina - le note decisive per il mancato appuntamento con una vittoria possibile. D’altra parte, il vistoso calo di De Rossi, l’ennesimo flop di Menez, il calo di rendimento di Vucinic e Pizarro non hanno certo aiutato. Ma, soprattutto, una difesa disastrosa (la seconda peggiore del campionato) hanno impedito alla Roma di alimentare le ambizioni e le speranze della sua tifoseria, sempre pronta a passare dall’entusiasmo alla depressione nello spazio di una partita.
E’ un elemento, quello della sua tifoseria, che risulta determinante nella mancanza di equilibrio generale dell’ambiente Roma e la nuova proprietà, quale che sarà, dovrà certamente mettere in agenda anche il recupero di una serenità ambientale che passa in primo luogo per la definizione trasparente di obiettivi realistici e tempi necessari alla loro realizzazione, così da non offrire per l’ennesima volta le interviste roboanti ad inizio campionato in tandem con le delusioni di fine torneo.
Per quanto riguarda il Napoli, che sembrava dovesse a un certo punto correre addirittura per il titolo, si è trattato comunque di un ottimo campionato. I partenopei hanno dato il massimo di quello che potevano, anzi, sono andati decisamente aldilà delle loro possibilità. Si tratta, infatti, di una compagine che dispone di un fuoriclasse (Cavani), due campioni (Lavezzi, Hamsick) e alcuni discreti giocatori (De Santis e Paolo Cannavaro su tutti). Non ha, quindi, un organico complessivo stellare, nemmeno sulla carta e il futuro non sarà semplice da tracciare. Perché, proprio in vrtù della qualità e della classifica, il prossimo anno per migliorarsi dovrà necessariamente cambiare le sue politiche societarie.
Non solo dovrà fare a meno dell’allenatore, dal momento che l’accordo tra Mazzarri e la Juventus sembra ormai cosa fatta, ma dovrà anche rivedere le politiche economiche generali. Per riuscire a tenere i migliori (Cavani e Hamsick su tutti) e ampliare in qualità e quantità l’organico, De Laurentis dovrà infatti mettere mano in maniera decisa al portafogli, attività che gli risulta, com’è noto, particolarmente antipatica. Ma é il denaro, non il Vesuvio, ad attirare i campioni. Ed è il volume degli investimenti a dire quali saranno gli obiettivi. Pensare di avere giocatori capaci di vincere pagandoli come quelli capaci solo di perdere, è una contraddizione irrisolvibile. La disponibilità a investire del Presidente, dunque, sarà la cartina tornasole delle ambizioni future degli azzurri.
Stessa situazione riguarderà la Lazio, dove il suo presidente chiacchierone, autonominatosi “moralizzatore”, dovrà decidere se continuare a tentare di pescare il jolly low-cost o a mettere mano ai contratti e agli investimenti per dare il valore che manca per trasformare la Lazio da una buona squadra ad una squadra vincente. Anche qui, a parte Zarate ed Hernanes, campioni non se ne vedono, mentre ci sono diversi buoni calciatori, da Ledesma a Muslera, a Biava, Radu, Dias. Il presidente della Lazio dovrebbe trovare, più che le citazioni latine (spesso storpiate) il modo di tacere. Se è a caccia di scandali guardi in casa propria.
Ha acquistato la Lazio con una sorta di mutuo ventennale a tasso zero, grazie all’amicizia politiche con l’allora governatore Storace, dando luogo alla più imbarazzante rateizzazione mai vista da parte dell’Agenzia delle Entrate. La Lazio, com’è evidente, serviva da trampolino per l’investimento vero, quello dello stadio di Valmontone, fulcro di un’investimento edilizio miliardario da cogliere a prezzo irrisorio. Il nuovo stadio è ancora da immaginarsi, mentre le litanie di Lotito (che ha anche perso tutte le cause intentate contro giocatori per inadempienze contrattuali e società di calcio accusate di non avergli pagato cifre che voleva ma che non gli spettavano) non sembrano aver fine.
Se Lotito, invece di minacciare un’improbabile task-force per sorvegliare la regolarità del comportamento arbitrale, ingaggiasse un manager dotato di poteri (e di denaro), la qualità esistente sarebbe un ottima base per il salto di qualità necessario. Invece, c’è da scommetterci, l’estate che verrà vedrà l’ennesima corsa a scoprire eventuali pregi di giocatori sconosciuti che Lotito compra al discount del calcio, senza peraltro disporre del team di osservatori dell’Udinese, del Milan e dell’Inter. E l’aver riconfermato Reja alla guida della squadra, appare invece il preludio a l’ennesima tenuta bassa delle ambizioni biancocelesti.