Il 22 giugno del 1974, avevo appena compiuto i nove anni. La scuola aveva chiuso i battenti da pochi giorni, l’estate spalancava le sue porte a vacanze e spensieratezza. La Prima Comunione, celebrata qualche mese prima, aveva comportato la kermesse di regali tipici dell’occasione. Tra questi, il dono più desiderato al termine di quella piacevole tortura chiamata catechismo: un pallone di cuoio. Un pallone “vero”, proprio come quelli che si vedevano colpire e rotolare sui prati della Serie A, filtrati dal bianco e nero del televisore. Pachidermici elettrodomestici di plastica e alluminio che avvolgevano, quasi a proteggerlo, il delicato tubo catodico. Prezioso almeno quanto la sfera tanto agognata, poiché l’uno giustificava la indispensabilità dell’altra.
Se l’uno infatti, permetteva la visione semi-onirica delle gesta dei campioni l’altra consentiva, nella stessa modalità immaginaria, la loro emulazione. Sui Maracanà improvvisati nei giardini e nelle piazzette, sotto il sole cocente e con le ginocchia sbucciate. I 12 pannelli pentagonali, uniti in salde cuciture ai rimanenti 20 esagonali, facevano di quel pallone di cuoio un’astronave per il sogno. Anche se era tutto tremendamente reale. Come il Socialismo di là della cortina di ferro.
Solo dopo molti, molti anni avrei capito l’importanza di quanto accadde quel giorno, all’interno del Wolksparkstadion di Amburgo. I Mondiali nella Germania Ovest, o più precisamente il Campionato mondiale di calcio FIFA 1974, ebbero inizio il 13 giugno e si sarebbero conclusi il 7 luglio. La Nazionale italiana arriva a quell’appuntamento con i favori del pronostico, in compagnia di altre blasonate selezioni come il Brasile, l’Argentina e, naturalmente, la Germania Ovest. Gli azzurri, guidati da Ferruccio Valcareggi, godono ancora dei clamorosi successi conseguiti quattro anni prima in Messico, con il raggiungimento della finale poi persa con il Brasile di Pelé, preceduta però da una semifinale che passò alla Storia; Italia – Germania 4 a 3.
Lo fu a tal punto che diventò proverbiale, entrò di prepotenza nel linguaggio comune, da pronunciare tutto di un fiato: italiagermaniaquattroatre. Una sfida epica, una battaglia combattuta fino allo stremo dei supplementari dall’una e dell’altra parte, destinata a essere ricordata per sempre come “La partita del secolo”. Quel secolo ha fatto in tempo a finire e ne è iniziato un altro, ma quella etichetta gli rimarrà incollata per sempre. La targa che allo stadio Azteca di Città del Messico ne consolida ancora la memoria, ha subito il passaggio del tempo ma resiste all’oblio. Gli anni Settanta erano in fermento, nel mondo e naturalmente anche in Italia. Gli “autunni caldi” che dal 1969 si erano susseguiti con le loro travolgenti istanze di trasformazione, nelle fabbriche e nella società intera, testimoniano di un periodo storico per alcuni versi irripetibile. E che avrebbe condizionato, nel bene e nel male, gli anni a venire, fino ai giorni nostri. In quel 1974, di eventi molto significativi ce ne furono, eccome; epocali, tanto per scomodare termini altisonanti. Per esempio, il 12 e il 13 maggio si svolse il referendum abrogativo sul divorzio, un istituto regolato da una legge approvata quattro anni prima, nel dicembre del 1970.
A capo dell’esecutivo c’è Mariano Rumor, nell’ennesimo governo a guida democristiana con l’appoggio esterno di PSI e PSDI. La campagna referendaria (nel quesito contraddittorio per cui chi votava SÌ era contro e chi votava NO era a favore), come è facile immaginare, si infiamma fin da subito, con un fronte laico abbastanza compatto e il mondo cristiano fortemente diviso al suo interno. I toni raggiungono livelli apocalittici, con prelati che minacciano la scomunica e addirittura l’inferno per i fedeli che derogassero dal voto imposto dal Vaticano, e con i manifesti dell’MSI di Giorgio Almirante che recitano; “Contro gli amici delle Brigate Rosse il 12 maggio vota SÌ”. Tra l’altro, Renato Curcio ed Enrico Franceschini, due dei fondatori delle Brigate Rosse, vengono catturati dalle forze dell’ordine nel settembre di quello stesso anno, grazie a Silvano Girotto, Frate Mitra, infiltrato nella organizzazione per far scattare poi l’arresto avvenuto a Pinerolo, dinanzi alle sbarre di un passaggio a livello.
In ogni caso, l’affluenza alle urne per il referendum sfiora l’88 %; il NO prevale con il 59 %. La comitiva azzurra che approda al Mon Repos di Ludwigsburg, un alberghetto situato a pochi chilometri da Stoccarda, rappresenta dunque un Paese reduce da “una grande vittoria della libertà, della ragione e del diritto. Una vittoria dell’Italia che è cambiata e che vuole e può andare avanti”, come dichiarò Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano. Sul campo, gli esiti furono del tutto diversi. Inseriti in un girone apparentemente alla portata degli eroi di Mexico 70, Mazzola Rivera e Riva non riuscirono ad andare oltre una figura non all’altezza delle loro potenzialità.
Dopo una vittoria affannosa con Haiti e uno stentato pareggio con l’Argentina, verranno definitivamente eliminati dalla Polonia, squadra rivelazione del torneo. Una eliminazione che farà scalpore almeno quanto il sonoro “vaffa…” vibrato da Giorgio Chinaglia all’indirizzo del C.T. Valcareggi, visto e ascoltato in mondovisione nel momento in cui fu sostituito da Pietruzzu Anastasi durante la partita con gli haitiani. Ci vollero le capacità diplomatiche di Tommaso Maestrelli, all’epoca allenatore della Lazio neocampione d’Italia, precipitatosi al Mon Repos per ricucire lo strappo tra lo staff della Nazionale e il focoso centravanti, evitandone così il divorzio.
Pertanto, le cronache si concentrarono sul fallimento di una squadra che aveva vanificato quanto di superlativo ottenuto in Messico. Prestazioni incolore e giocatori demotivati, almeno secondo le (feroci) critiche scagliate dai maggiori quotidiani e dai più autorevoli opinionisti, non solo sportivi. Messe da parte la delusione e la indignazione, l’interesse si spostò su altri aspetti della competizione. Uno su tutti, la selezione olandese con la sua rivoluzionaria idea di gioco, protagonista assoluta insieme alla Polonia di Tomaszewski Deyna Lato e Szarmach. Il “calcio totale” dell’Arancia Meccanica, così venivano chiamati gli Oranges, fece lievitare il fascino che già da qualche anno suscitava in giro per l’Europa con le imprese dell’Ajax. Il club di Amsterdam si era aggiudicato tre edizioni di fila, ’71 ’72 e ’73, della Coppa dei Campioni. Krol, Rep, Rensenbrink e soprattutto Johan Cruijff erano la nuova frontiera del football, la rivoluzione copernicana che affondava le radici tra i canali di Amsterdam. Nei lembi di terra sottratti all’oceano che avevano elevato l’orgoglio popolare dei Paesi Bassi.
L’Olanda sbalordì il mondo praticando un calcio spettacolare e allo stesso tempo concreto, essenziale. Ebbe però la “sfortuna” di incontrare Germania Ovest e Argentina nelle finali disputate nel ‘74 e nel ‘78, ovvero le squadre ospitanti il Mondiale. Quello sudamericano poi, era l’edizione che avrebbe dovuto bonificare l’immagine della giunta militare, come per Hitler con le Olimpiadi del 1936, mentre il dramma della desaparición si consumava intorno al Monumental di Buenos Aires, lo stadio della finale. A poche centinaia di metri, le urla provenienti dalla ESMA, la caserma della Marina Argentina trasformata in centro di detenzione e tortura, venivano sovrastate dalle grida festose per la conquista della Coppa del Mondo a opera di Kempes Passarella Ardiles e Bertoni. La ESMA, Escuela Militar de la Armada durante la dittatura, ora è diventata Espacio Memoria y Derechos Humanos.
Tra le pive nel sacco di Mazzola e Rivera e la macchina quasi perfetta di Cruijff e Rinus Michels, ad Amburgo va in scena molto più di una gara sportiva, sebbene valevole per la qualificazione alle fasi finali del prestigioso torneo. Si affrontano la DDR e la Germania Ovest. Il mondo diviso in due secondo le sfere di influenza di Stati Uniti e Unione Sovietica, “plasticamente” rappresentato dal Muro che a Berlino separava l’Est dall’Ovest (e viceversa), si incontrava scontrandosi su un campo di calcio.
D’altronde, da tempo la politica aveva allungato gli artigli sullo sport nonché sull’appeal che le vere e proprie icone da esso generate esercitavano sulla popolazione. Il calcio, solo nel dopoguerra raggiunse la dimensione “di massa”, affiancandosi alla boxe a al ciclismo che già lo erano dagli inizi del Novecento. Al di là della sua connotazione primordiale che risvegliava e rievocava la rivalità campanilistica dei contendenti, della introduzione delle scommesse (in Italia prima la SISAL e poi il Totocalcio) che avrebbe dato la possibilità a chiunque di aggiudicarsi sostanziosi montepremi, della esaltazione dei propri beniamini che avrebbe riprodotto lo storico antagonismo tra Coppi e Bartali o tra Nuvolari e Varzi, il calcio si guadagnò prepotentemente lo status di nazionalpopolare. Quindi - al pari di altri sport, sia chiaro - si prestava (e si presta) a operazioni di strumentalizzazione e propaganda, meschine o meritevoli a seconda delle circostanze. La clamorosa ascesa di Primo Carnera, durante il ventennio fascista, fu utilizzata dal regime per divulgare nel mondo la figura dell’“italiano nuovo”, temprato sulla dedizione alla forma fisica e alla difesa della patria. Inoltre, rappresentò il riscatto per milioni di italiani emigrati all’estero, soprattutto negli Stati Uniti dove il boxeur triestino trionfò nella ambita categoria dei pesi massimi, costretti a subire quotidianamente discriminazioni e soprusi.
Oppure, in un capovolgimento della prospettiva storico-politica, ad assistere a tremende ingiustizie, come nel caso della pena capitale inflitta agli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Nondimeno, la sinistra degli albori (incluso Benito Mussolini quando ancora militava nel PSI) aveva da sempre manifestato diffidenza e disinteresse nei confronti dello sport, in quanto “il suo esercizio toglie tempo ed energie alla lotta di classe”. L’operaio e il contadino dunque, impegnati nella costruzione di un mondo nuovo o nella difesa della Rivoluzione, non si dedicano alla pratica di un’attività sportiva almeno fino a quando l’Unione Sovietica non scopre la profonda efficacia della presenza della propria bandiera ai Giochi Olimpici. Il capitalismo bisognava sconfiggerlo anche sulle piste di tartan e al di là di cosa ne avrebbero pensato Marx ed Engels, il messaggio era chiaro: atleti di tutto il mondo, unitevi!
E il mondo che in quella epoca sognava un futuro libero dalle catene della repressione dello sfruttamento e del saccheggio, non ritenne eretico riporre le proprie rivendicazioni sociali e politiche anche nelle sorti di una normale partita di calcio. Che di “normale”, non aveva nulla. Anzi, parafrasando i versi di una famosa canzone di Giorgio Gaber, qualcuno diventò comunista guardando in tv o ascoltando alla radio una inedita rappresentazione della lotta di classe. Il dilettantismo proletario della DDR opposto al professionismo opulento della RDT. La divisa sgualcita del kamerad Bernd Bransch di fronte al bianco sgargiante del kaiser Franz Beckenbauer. Alcuni anni più tardi Sócrates, il capitano della rappresentativa brasiliana al Mundial spagnolo del 1982, il “Dottore” del calcio che amava Gramsci più di Pelé e fondatore della “Democracia Corinthiana”, teorizzò che “non c’è niente di più marxista del gioco del calcio”.
Jürgen Sparwasser, mezzala degli Ossis, forse già lo aveva in mente quando al 78° minuto di quell’attacco sferrato al capitalismo il 22 giugno 1974 ad Amburgo, spinse in rete alle spalle di Sepp Maier, portiere dei Wessis, il suo Pallone dell’Est.