È proseguita senza sosta per tutto il fine settimana l’ondata di proteste negli Stati Uniti, esplose contro i metodi brutali delle forze di polizia, che stanno mostrando al mondo come la prima potenza del pianeta, già devastata dall’epidemia di Coronavirus, sia nient’altro che una polveriera sociale sul punto di esplodere. Di fronte al dilagare della rivolta, il presidente Trump continua a fare appello alle forze fascistoidi che costituiscono, in definitiva, la sua vera base di sostegno nel paese e ha denunciato, con implicazioni inquietanti, le manifestazioni in corso come iniziative promosse da provocatori, se non terroristi, di estrema sinistra.

Gli scontri che durano ormai da quasi una settimana raccontano di un’America sconvolta da un movimento popolare spontaneo dalle dimensioni inedite negli ultimi decenni. Un centinaio di città hanno fatto registrare proteste durissime, accolte quasi sempre dal pugno di ferro delle autorità, sull’onda dell’assassinio da parte di un agente di polizia del 46enne afro-americano George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso.

Gli eventi seguiti a questo ennesimo gravissimo episodio di violenza deliberata avevano subito scatenato la rabbia della popolazione della città del Minnesota, con scene difficilmente riscontrabili nelle democrazie occidentali in tempi recenti, come la fuga dell’intero corpo di Polizia da un distretto mentre l’edificio che lo ospitava veniva dato completamente alle fiamme.

Fatti così eccezionali sono stati seguiti dalla reazione altrettanto sconvolgente del presidente degli Stati Uniti. Trump aveva subito invocato la repressione delle proteste, con il preciso scopo di incitare le stesse forze dell’ordine a soffocare nel sangue i disordini, fino addirittura a sparare sulla folla in rivolta. Il risultato della violenza fomentata dal vertice stesso dello stato è un bilancio finora già molto grave. I morti tra i manifestanti sarebbero due, di cui uno a Louisville, nel Kentucky, a causa di una sparatoria che ha coinvolto gli uomini della Guardia Nazionale.

Centinaia sono invece gli arresti in tutto il paese, mentre almeno 26 stati hanno mobilitato proprio la Guardia Nazionale, su invito di Trump, e una ventina hanno imposto il coprifuoco nelle ore notturne. Particolarmente numerosi sono stati i manifestanti a New York, dove si parla di decine di migliaia di persone scese per le strade in maniera pacifica. Clamorose sono state invece le scene viste a Washington. Nella capitale, le proteste hanno raggiunto la Casa Bianca e, in una situazione altamente simbolica, venerdì il presidente è stato condotto dagli uomini del Servizio Segreto nel bunker dell’edificio, dove è rimasto asserragliato e super-protetto per circa un’ora mentre all’esterno infuriava la rivolta.

Da Chicago a Philadelphia, da Miami a Los Angeles, da Seattle a Las Vegas, americani in larga misura appartenenti alla “working-class” non solo di colore hanno dato vita a una protesta quasi senza precedenti, innescata di fatto da un altro omicidio della polizia, ma alimentata come benzina sul fuoco da una crisi sociale aggravatasi a causa del tracollo dell’economia provocato dall’emergenza Coronavirus.

Un numero di disoccupati schizzato a 40 milioni praticamente dall’oggi al domani, quasi 20 milioni di lavoratori che rischiano o perderanno di certo la propria copertura sanitaria e un governo impegnato ad assicurare migliaia di miliardi di dollari ai grandi interessi economico-finanziari sono le vere ragioni di fondo di quanto sta accadendo oltreoceano in queste ore. È difficile in definitiva non constatare, come ha spiegato il filosofo e attivista Cornell West, “il fallimento definitivo dell’esperimento sociale americano” e del modello di capitalismo USA, in grado di generare ingiustizie sistematiche, disuguaglianze dalle dimensioni quasi incomprensibili e un’oligarchia irremovibile che controlla ogni aspetto dell’economia e della società.

Di fronte inoltre al pericolo di una vera e propria controrivoluzione di estrema destra, il cui centro nevralgico sembra essere precisamente alla Casa Bianca, i tentativi di pacificare la situazione messi in atto dagli oppositori di Trump appaiono ugualmente pericolosi o, quanto meno, fuorvianti.

Tra politici del Partito Democratico e commentatori a esso vicini sono in molti che, sia pure criticando le posizioni del presidente, hanno sposato la tesi della presenza in maggioranza di provocatori violenti tra le fila dei rivoltosi. Ancora più allarmante, oltre che patetico, è lo sforzo di altri per ricondurre i fatti di questi giorni all’ultra-screditata caccia alle streghe anti-russa. L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Obama, Susan Rice, ha ad esempio caratterizzato le proteste come tipiche dell’agenda di Mosca, da dove si starebbe cercando di alimentare il caos per destabilizzare  gli USA per fini strategici.

Al contrario, quasi nessun politico democratico di spicco ha denunciato come tali le tirate di stampo fascista contro i manifestanti di Trump. Questo genere di reazioni rivela il terrore che attraversa la classe dirigente americana di qualsiasi orientamento politico, costretta a osservare forse per la prima volta il fantasma di una rivoluzione popolare in avanzamento.

Nella migliore delle ipotesi, media e politici “liberal” cercano in tutti i modi di collocare le proteste in un quadro puramente razziale, ancora una volta per tenere lontano il più possibile dal dibattito pubblico americano il fattore al contrario di gran lunga più importante per spiegare l’esplosione in atto, cioè quello di classe.

In uno scenario simile, è purtroppo altamente probabile che le centinaia di migliaia di americani scesi nelle strade delle città di tutto il paese finiranno per andare incontro a una violentissima repressione, dovuta in primo luogo all’isolamento e all’abbandono a cui vengono lasciati in assenza di un punto di riferimento politico realmente di sinistra.

Allo stesso modo, è tutt’altro che inverosimile pensare a un colpo di mano da parte dell’amministrazione Trump. In affanno nei sondaggi a pochi mesi dalle presidenziali, con l’economia in caduta libera e di fronte al radicalizzarsi della protesta, l’inquilino della Casa Bianca potrebbe sfruttare la situazione di crisi e l’impotenza dei suoi oppositori per adottare una qualche misura che introduca una sorta di stato di emergenza permanente o per dichiarare i manifestanti “terroristi domestici”.

Al centro delle manovre ci sarebbe in questo caso il ministro della Giustizia (“Attorney General”), William Barr, da sempre sostenitore convinto del rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e, non a caso, in questi giorni tra le voci più dure all’interno del governo federale nella denuncia delle manifestazioni partite da Minneapolis e dilagate quasi in ogni angolo degli Stati Uniti.

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