Senza la minima preoccupazione per il mandato d’arresto internazionale per genocidio e crimini di guerra che pesa sulla sua testa, il primo ministro israeliano Netanyahu ha incontrato lunedì alla Casa Bianca il presidente americano Trump in un vertice organizzato in fretta e furia, verosimilmente per pianificare le prossime mosse dei due alleati nella riorganizzazione strategica del Medio Oriente. Visto il livello di degenerazione politica e morale che caratterizza i due leader e i rispettivi governi/regimi, a livello pubblico il faccia a faccia si è prevedibilmente risolto nell’ennesima celebrazione della strage in corso a Gaza. Tra le righe, si è tuttavia percepita una certa inquietudine per il crescente disgusto dell’opinione pubblica internazionale nei confronti dei massacri quotidiani e dell’impunità del regime sionista, possibile solo grazie al totale appoggio americano. Allo stesso modo, l’elemento più sorprendente dell’apparizione pubblica dei due leader è stato l’annuncio di Trump di un imminente incontro tra Stati Uniti e Iran.

Le dinamiche relative al nucleare iraniano e alle posizioni dell’amministrazione repubblicana nelle ultime settimane avevano lasciato intendere che fossero già in svolgimento discussioni indirette tra Washington e Teheran per provare a individuare un punto di partenza di una comunque complicatissima trattativa diplomatica. La ormai famosa lettera di Trump alla leadership della Repubblica Islamica prospettava iniziative minacciose in caso di una mancata risposta secondo i termini stabiliti dal presidente americano, ma, in parallelo, apriva anche uno spiraglio al dialogo. Il governo iraniano aveva risposto più o meno formalmente respingendo il metodo fatto di pressioni e minacce, per poi rilanciare un possibile negoziato indiretto, ovvero tramite uno o più intermediari, sulla linea di quanto accaduto un decennio fa con la stipula dell’accordo sul nucleare (JCPOA) a Vienna.

Con la sua uscita pubblica di lunedì, Trump ha invece annunciato “colloqui diretti” con l’Iran, che si terranno già sabato prossimo. Il resto del suo intervento ha oscillato tra ottimismo e pessimismo, come se a decidere dell’esito delle discussioni fosse realmente il comportamento dell’Iran. Trump, in ogni caso, con a fianco il super-falco in materia di Iran Netanyahu, ha spiegato che “tutti concordano sul fatto che un accordo sarebbe preferibile” all’uso della forza, a suo dire un’opzione che sia la sua amministrazione sia Israele preferirebbero evitare. Quello in cui Washington si starebbe per avviare, cioè il dialogo con Teheran, è stato però definito da Trump come un “terreno pericoloso”.

Fin qui le note relativamente positive. Il successivo intervento di Netanyahu ha tuttavia corretto la prospettiva. In primo luogo, l’atteggiamento del premier israeliano ha fatto intendere che le parole di Trump non lo hanno colto di sorpresa, ma che sono state in qualche modo concordate tra i due alleati. Netanyahu, il cui paese detiene un numero imprecisato di armi nucleari senza nessuna base legale e senza ammetterlo pubblicamente, ha ribadito che USA e Israele concordano sul fatto che l’Iran non dovrà mai possedere simili ordigni. Anche secondo il suo parere, la questione sarebbe preferibilmente da risolvere attraverso la diplomazia e il modello potrebbe essere la gestione dello smantellamento del programma nucleare della Libia nel 2003.

Il riferimento a quest’ultima vicenda rivela, se fosse necessario, la totale malafede di Trump e Netanyahu. Al di là del diverso livello raggiunto dall’allora programma nucleare libico e da quello odierno dell’Iran, la decisione presa da Gheddafi di fidarsi degli Stati Uniti avrebbe contribuito non poco alla sua stessa fine in seguito all’intervento militare della NATO a sostegno della finta rivoluzione del 2011. È chiaro che per l’Iran una soluzione di questo genere sia del tutto inaccettabile, come sanno perfettamente USA e Israele. La Repubblica Islamica aveva peraltro già sottoscritto un accordo con l’Occidente per regolare il proprio programma nucleare e garantire ai suoi interlocutori che non avrebbe perseguito la costruzione di armi atomiche. Si tratta evidentemente sempre del JCPOA del 2015, affondato però di lì a soli tre anni e senza nessun motivo valido proprio da Donald Trump.

Il fatto che Netanyahu abbia citato l’opzione libica conferma l’ipotesi che Trump, dietro pressioni sioniste, punti a sottoporre all’Iran una “proposta” che contenga condizioni impossibili da soddisfare. Una volta respinta inevitabilmente da Teheran, USA e Israele sfrutteranno il rifiuto iraniano per denunciarne l’intransigenza, così da alzare ulteriormente le pressioni o procedere con una rischiosissima operazione militare. Queste manovre sono necessarie per superare le resistenze domestiche e internazionali a una nuova guerra di aggressione, soprattutto alla luce del flop americano in relazione allo Yemen.

La questione decisiva sarebbe il contenuto dell’offerta da presentare all’Iran, nella quale troverebbero posto con ogni probabilità condizioni che, se accettate, comporterebbero la rinuncia di fatto alla propria sovranità e il piegamento agli interessi di Stati Uniti e Israele nella regione. In cima alla lista di Trump c’è lo smantellamento non solo del programma nucleare civile, ma anche di quello missilistico, forse ancora più importante, e l’indebolimento del legame tra l’Iran e i suoi alleati regionali, vale a dire la distruzione dell’Asse della Resistenza per dare sostanzialmente mano libera a Washington e Tel Aviv.

Resta ad ogni modo difficile elaborare congetture circa le strategie di Trump. Alcuni commentatori ritengono che l’incontro di lunedì alla Casa Bianca allontani, almeno per il momento, l’aggressione militare contro l’Iran. Questa tesi prende le mosse dalla consapevolezza che un attacco sul territorio iraniano scatenerebbe una risposta rovinosa, in linea con gli avvertimenti arrivati nei giorni scorsi da Teheran, che, tra l’altro, potrebbe causare gravissimi danni alle basi americane in Medio Oriente, paralizzare l’export petrolifero e far scattare ritorsioni militari contro Israele e, forse, gli stessi alleati arabi di Washington nella regione.

Visto lo scenario da incubo che l’opzione militare implicherebbe, Trump valuterebbe quindi in maniera seria, almeno secondo i suoi standard, la possibilità del negoziato con l’Iran. Il fattore Netanyahu comporta però una contropartita per Israele. In altre parole, la rinuncia all’attacco militare contro l’Iran, per cui spinge da sempre il premier israeliano, verrebbe compensata con il via libera alla finalizzazione del genocidio palestinese e all’annessione di Gaza e Cisgiordania, oltre che all’espansione dell’influenza sionista in Libano e Siria.

Le altre dichiarazioni di Trump su Gaza dopo il vertice di lunedì hanno registrato infatti una convergenza pressoché totale tra i due leader. Il presidente americano ha fatto solo un breve riferimento all’ultima proposta di cessate il fuoco presentata dall’Egitto, che Washington starebbe valutando, per poi rilanciare gli scenari surreali da resort di lusso per il futuro della striscia. Trump e Netanyahu hanno cercato nuovamente di caratterizzare l’espulsione forzata dei residenti palestinesi di Gaza come un “trasferimento volontario”, assurdamente collegato a prospettive, per questi ultimi, di una vita senza morte e distruzione, come se morte e distruzione fossero la conseguenza di una qualche catastrofe naturale e non delle iniziative deliberate dei due stessi politici maggiormente responsabili del genocidio in corso, assieme all’ex presidente Biden.

Trump ha poi spiegato che la priorità americana e israeliana è di liberare gli “ostaggi” ancora in vita nelle mani di Hamas, senza parlare ovviamente di come un accordo per arrivare a questo risultato fosse stato firmato da Netanyahu con l’accettazione della tregua di gennaio, prima che lo stesso premier la facesse saltare riprendendo l’aggressione militare a metà dello scorso mese di marzo. Al centro delle discussioni a Washington lunedì ci sono stati con tutta probabilità anche la situazione in Siria e in Libano, così come la decisione della Casa Bianca di imporre anche a Israele dazi sulle sue esportazioni verso l’America.

Ma sono state appunto le parole di Trump sull’Iran ad attirare l’attenzione dei media internazionali. Nella serata di lunedì, l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Nour ha definito le dichiarazioni di Trump “un’operazione psicologica complessa e calcolata per influenzare l’opinione pubblica domestica [iraniana] e internazionale”, senza però smentire la notizia dell’incontro tra le delegazioni dei due paesi. Successivamente, il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, ha confermato i colloqui di sabato, che dovrebbero tenersi in Oman, ma precisando che saranno in forma “indiretta”.

Anche il governo iraniano deve bilanciare spinte in direzione opposta sul fronte interno a proposito dell’opportunità di trattare con Washington, soprattutto in virtù del fatto che l’esca lanciata da Trump nasconde molto probabilmente manovre tutt’altro che pacifiche. Le minuscole possibilità anche solo che il summit del prossimo fine settimana non si risolva in un fallimento dipendono quindi interamente dall’atteggiamento USA. Cioè dal fatto che la delegazione americana, guidata dall’inviato speciale del presidente Steve Witkoff, dimostri di volere trattare da pari a pari, con rispetto della Repubblica Islamica e dei suoi legittimi interessi e mettendo da parte le minacce. Alla luce di queste considerazioni, gli elementi che possano indurre all’ottimismo appaiono quindi virtualmente inesistenti.

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