Il vertice dei BRICS tenutosi nella città russa di Kazan ha segnato un sostanziale avanzamento nel consolidamento dei meccanismi operativi che consentiranno di abbandonare sempre più il Dollaro nelle transazioni internazionali, riducendo il dominio dell'economia internazionale, limitando lo strapotere statunitense e gli effetti perversi della politica delle sanzioni utilizzata dall'Occidente come strumento illegittimo nella competizione di mercato e nell'influenza politica globale.

Il trionfo politico del vertice è oggettivamente opera della Russia. La presenza di 36 Paesi, di cui 24 rappresentati dai loro Capi di Stato, ha definitivamente seppellito i sogni di Washington e Bruxelles che volevano Mosca isolata a livello internazionale. La presenza del Segretario Generale dell'ONU Guterres è stata un forte schiaffo alle pressioni provenienti dai vari simposi occidentali - a cui partecipano poche decine di Paesi, quindi non rappresentativi della comunità internazionale nel suo complesso - affinché la Russia venga ignorata.

Nessun Paese ha osato criticare la presenza di Guterres, la cui presenza ha dato al Presidente russo la massima copertura diplomatica e il riconoscimento di un'influenza politica sempre più importante. La sua presenza ha reso plasticamente evidente l'interesse del mondo per lo sviluppo del movimento.

I risultati ottenuti dalla presidenza russa in tutte le tappe del processo di aggregazione e l'assoluto protagonismo politico del presidente Putin sono stati sanciti in due giorni di dibattiti e decisioni di ampio respiro e riassunte in un documento che, sebbene in alcuni passaggi possa apparire generico, mostra come i BRICS intendano muoversi verso un'idea di governance globale, ben al di là di una direzione esclusivamente economica e finanziaria.

La fine del vertice, tuttavia, insieme a molti aspetti positivi, ha anche portato una spiacevole sorpresa, con il veto da parte del governo del Brasile, membro fondatore dei BRICS, all'ingresso del Venezuela nel gruppo dei soci (non dei membri). A questo veto se ne è aggiunto un altro, quello dell'India nei confronti della Turchia, presumibilmente come conseguenza delle relazioni di Ankara con il Pakistan (per inciso, un altro Paese che ha già fatto domanda di adesione ai BRICS).

Questo atteggiamento non è condiviso da Russia e Cina, che sebbene si Attengono alla regola del voto unanime, sostengono certamente il Venezuela nei BRICS. Mosca, tra l’altro, pur avendo avuto un duro confronto (in parte anche militare) con la Turchia nella vicenda siriana, privilegia l'importanza delle buone relazioni con Ankara, prossimo hub petrolifero dell'Europa e Paese strategico dal punto di vista geopolitico e militare. Atteggiamento che mantiene in tutti i fori dove è presente (ad esempio lo SCO). Quanto alla Cina, il costante sforzo diplomatico che ha favorito la riapertura delle relazioni tra Teheran e Riad è un esempio di come Pechino intenda dimostrare la centralità della diplomazia nelle relazioni tra stati e che le distanze, per grandi che siano, vanno ridotte con pazienza e lucidità politica nell’interesse comune.

Sembra dunque esserci un diverso approccio da parte di Russia e Cina da un lato e di India e Brasile dall'altro, anche se è presto per vedere quanto le posizioni di chiusura resisteranno sotto la spinta degli altri membri. La ragione di questadifferenza risiede in parte nella diversa storia delle rispettive politiche estere e in parte anche nella diversa consapevolezza dell'urgenza di espandere i BRICS se vogliono trasformarsi definitivamente in una vera piattaforma alternativa in tutti i sensi all'unipolarismo occidentale. Pechino e Mosca hanno una infatti visione strategica del blocco che rappresenta il Sud globale e l’Est; un blocco che, espandendosi, intende contendere fino a superare l’egemonia statunitense. E questo non è detto sia l’ambizione di Delhi e Brasilia.

Intanto però nei veti incrociati si misura un'incoerenza oggettiva per un organismo che chiede l'inclusione ma pratica l’esclusione. La decisione sulla Turchia potrebbe riflettere elementi di perplessità sul ruolo dominante di Ankara nella NATO e sulla propensione di Erdogan a non rispettare l'alleanza, ma anche questo sembra un errore. Quella sul Venezuela, invece, è priva di senso da qualunque parte la si voglia vedere.

C’è un criterio di fondo che va rielaborato: se si autorizzasse l’entrata solo ai paesi che non hanno e non hanno mai avuto contenziosi o alleanze in opposizione ai cinque fondatori, allora la capacità di espansione dell'organismo sarebbe davvero limitata a pochi altri e l'intero processo aggregativo volto a modificare i rapporti di forza internazionali ne risentirebbe. Pertanto, il meccanismo concepito alla nascita dovrebbe necessariamente essere rivisto e migliorato, in linea con l'appello dei BRICS all'intero Sud globale.

 

Lula, un triste epilogo

Il veto che ha suscitato maggiore opposizione è senza dubbio quello del Brasile nei confronti del Venezuela. La decisione di Lula appare sbagliata e grave. Lo è sia nella palese ostilità politica nei confronti di Caracas, sia in quelle occulte, che vedono il Brasile cercare di imporsi come Paese-guida del continente e unico punto di riferimento per i grandi attori della politica internazionale, sia in Occidente che nel Sud e nell'Est globale.

Il Venezuela, come tutti i Paesi dell'ALBA, ha tutto il diritto, oltre che la necessità, di entrare a far parte di un'organizzazione multilaterale che potrebbe essere un elemento decisivo per rompere l'assedio imperiale alla democrazia e allo sviluppo del Paese bolivariano. Il veto del Brasile all'ingresso di Caracas nei BRICS è un avallo delle politiche statunitensi ed evidenzia una perniciosa continuità con quanto fatto dal governo Bolsonaro sullo stesso tema.

Purtroppo, viene ribadita l'ostilità politica di Lula nei confronti del Venezuela e degli altri Paesi dell'ALBA-TCP, così come si è espressa in diverse occasioni negli ultimi 20 anni, quando Brasilia si è opposta in modo significativo al rafforzamento della struttura finanziaria e militare latinoamericana ideata da Chávez.

È chiaro che non c'è più traccia del Lula che diede il colpo di grazia all'ALCA, così come contribuì in modo decisivo alla nascita del Forum di San Paolo e della stessa CELAC. Il Lula di oggi sembra molto più preoccupato di assecondare Washington nelle politiche di contenimento dell’ALBA e anche della sua prossima ed ennesima candidatura alla presidenza del Brasile.

Da Brasilia si esercita una sostanziale opposizione allo sviluppo del ruolo politico del Venezuela in particolare e dell'ALBA-PTC in generale. Probabilmente si tratta di un'idea egemonica dello sviluppo del subcontinente basata sull'asse BAC (Brasile, Argentina e Cile) come fondamento della centralità politica ed economica dell'America Latina.

Ma è un asse, quello del Cono Sud, che ha sempre contemplato la preminenza del rapporto con gli Stati Uniti e l'Unione Europea, i quali nei confronti del Venezuela chiedono una politica di non riconoscimento del suo status istituzionale e spingono in direzione del suo isolamento. Una richiesta che, purtroppo, trova orecchie pronte in alcune capitali latinoamericane troppo attente all'obbedienza verso il Nord e poco alla ribellione del Sud.

E così il Brasile di Lula si unisce oggettivamente alla setta dei presunti progressisti come Fernández, Boric, Arévalo e Lenin Moreno. Associandosi ai governi latinoamericani di ultradestra e di finta sinistra, si aggiunge alla persecuzione politica dei governi rivoluzionari del continente. Soprattutto, dal punto di vista dell'etica politica, segna una pagina vergognosa nei confronti di chi, durante la sua prigionia e dopo le sfide al voto che lo hanno riportato al Planalto, si è schierato senza esitazione dalla sua parte pur non avendo alcuna prova che confermasse la veridicità delle tesi in difesa di Lula, sia nel processo che nel voto.

Questo gesto pone fine a ogni possibile vicinanza con un presidente che, sebbene il suo attuale mandato contraddica a parole e nelle opzioni tutte le sue promesse elettorali, aveva finora goduto di tolleranza e comprensione. Aveva ragione chi sottolineava l'incompatibilità tra gli annunciati ideali di liberazione ed emancipazione latinoamericana e le politiche di asservimento all'impero monroista a cui Brasilia si è legata, evidentemente con più convenienza che disagio.

L’atteggiamento di Lula conferma quanto già visto negli ultimi anni, ovvero la tendenza a passare da oppositore dell'ingerenza statunitense in America Latina a suo fedele interprete. In questo modo si chiude una storia di decenni, si rompe ogni legame di solidarietà con essa e si mettono negli archivi della memoria le battaglie comuni della sinistra latinoamericana. Ideali e battaglie oggi sacrificati sull'altare di un disegno egemonico condiviso con il Nord e di un ego personale fuori tempo massimo e certamente degno di miglior causa.

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