La provocazione di Nancy Pelosi, atterrata sana e salva a Taiwan martedì e ripartita il giorno dopo nonostante le minacce di Pechino, è stata vista generalmente in Occidente come una vittoria degli Stati Uniti e delle “forze democratiche” contro il “regime” cinese. Il danno di immagine sofferto da quest’ultimo sembra indiscutibile, anche se potrebbe essere in realtà solo apparente e le contromisure allo studio avranno senza il minimo dubbio conseguenze più o meno pesanti per Washington e Taipei. Gli avvertimenti lanciati dalle autorità cinesi fino a pochi minuti dall’arrivo sull’isola della “speaker” della Camera dei Rappresentanti USA non hanno avuto seguito, ma tutto fa pensare che l’iniziativa e le risposte che verranno decise a Pechino potrebbero determinare cambiamenti decisivi sullo status di Taiwan, trasformando così il “successo” americano di questa settimana in un vero e proprio boomerang.

Lasciando da parte la retorica e i riflessi immediati sulla stampa ufficiale del blitz della Pelosi, è importante chiedersi quali risultati concreti abbia in fin dei conti prodotto per gli Stati Uniti e i loro alleati. A livello pratico, Washington non ha guadagnato nulla e se la scommessa dell’amministrazione Biden, che aveva ostentato una certa contrarietà alla visita, è che la leadership cinese possa essere intimidita o che si aprano prospettive per l’indipendenza di Taiwan, l’incontro con la realtà nei prossimi mesi o anni potrebbe essere molto brusco.

 

Va anche sottolineato che il comportamento cinese nel corso delle tesissime ore di martedì è stato in definitiva prudente e controllato, visto che, se si considera la forza di fuoco dispiegata nella regione dal Pentagono, una mossa avventata per impedire l’atterraggio di Nancy Pelosi a Taipei avrebbe potuto scatenare un pericolosissimo scontro militare. Sono state piuttosto le scelte americane ad avere raggiunto un livello di sconsideratezza con pochi precedenti e per nulla giustificate dall’impegno formale, espresso dalla “speaker” durante l’incontro con la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, di sostegno al “governo democraticamente eletto” dell’isola.

La promessa di adottare misure di carattere militare, inclusa l’imposizione di una “no-fly zone” sui cieli di Taiwan, per impedire la visita della leader democratica USA non sono dunque state messe in pratica dalla Cina, anche se già martedì sono iniziate massicce esercitazioni militari attorno all’isola. Il rischio di una risposta militare era però concreto, soprattutto alla luce del tono delle minacce, e ciò stimola una riflessione sulle motivazioni che hanno spinto la Pelosi a portare a termine la visita programmata e, parallelamente, la Casa Bianca a non ostacolarla.

Il fatto che l’amministrazione fosse con le spalle al muro è stato probabilmente un fattore. La “speaker” aveva già cancellato il viaggio a Taiwan lo scorso aprile quando, all’ultimo momento, le era stato diagnosticato il Covid. L’annuncio dell’intenzione di recarsi sull’isola ad agosto aveva poi di fatto reso molto difficile qualsiasi scelta. Se la Pelosi avesse cancellato la tappa taiwanese, ci sarebbero state infatti enormi polemiche politiche sul fronte domestico, in particolare nei confronti di un’amministrazione Biden già attesa con ogni probabilità da un drastico ridimensionamento nelle elezioni di “metà mandato” a novembre.

Non ci sono comunque solo ragioni di natura interna dietro alla visita ultra-provocatoria di Nancy Pelosi a Taiwan. In molti nell’apparato di potere, accademico e mediatico ufficiale americano avevano espresso anche apertamente preoccupazioni per l’iniziativa, avendone valutato correttamente i rischi per la stessa stabilità globale. Tuttavia, ci sono elementi oggettivi che spingono gli Stati Uniti a istigare conflitti con i propri rivali strategici nel disperato tentativo di metterli all’angolo, in primo luogo attraverso un illusorio compattamento contro di essi della “comunità internazionale”.

Questa dinamica ricalca per molti versi quella della crisi ucraina in atto e della gestione dei rapporti con la Russia, spinta deliberatamente verso l’intervento militare nella ex repubblica sovietica. In quest’ultimo caso i calcoli americani sono stati però completamente sbagliati e il piano anti-russo si sta ritorcendo contro Washington e i suoi alleati. Tutti i segnali indicano un’evoluzione simile anche riguardo alla Cina e Taiwan. È inevitabile che Pechino deciderà di assumere posizioni più rigide a proposito di una questione che va al cuore della sovranità cinese, tanto più che oggi dispone di risorse economiche e anche militari probabilmente sufficienti a raggiungere l’obiettivo ultimo, ovvero la riunificazione con Taiwan.

Per comprendere la gravità della provocazione di Nancy Pelosi, con l’avallo di fatto dell’amministrazione Biden, e come l’iniziativa rappresenti potenzialmente un elemento di svolta sia nella questione taiwanese sia nei rapporti sino-americani, è utile guardare alle reazioni della stampa ufficiale di Pechino alla visita. Da articoli, interviste ed editoriali pubblicati nelle ultime ore si evince appunto come i fatti di martedì abbiano distrutto ogni residua illusione che la classe dirigente cinese poteva ancora nutrire circa la coesistenza pacifica con gli Stati Uniti.

Un commento della testata in lingua inglese Global Times ha lasciato pochi spazi alle interpretazioni, affermando che la visita della Pelosi “cambierà per sempre la situazione nello stretto [di Taiwan] e avrà un impatto devastante sulle già difficili relazioni tra USA e Cina”. Altrove, i media cinesi si sono assicurati di spiegare come gli Stati Uniti non solo abbiano violato la sovranità di Pechino, ma agiscano in modo contrario al principio che essi stessi riconoscono ufficialmente, ovvero quello di “una sola Cina”, così come gli impegni presi a partire dagli anni Settanta con la normalizzazione dei rapporti bilaterali.

Le rassicurazioni formali della stessa Pelosi o, tra gli altri, del portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazione, John Kirby, sul fatto che Washington continua a non appoggiare l’indipendenza di Taiwan vengono inoltre respinte da Pechino. Al di là delle parole, i fatti parlano chiaro e rischiano di creare aspettative che vanno precisamente in questa direzione tra gli indipendentisti dell’isola. Anche per questa ragione, la Cina intende prepararsi per l’esito esattamente opposto, cioè la riunificazione con Taiwan. In un passaggio straordinariamente esplicito di un altro articolo del Global Times, gli autori spiegano che le esercitazioni militari in atto e in programma a breve delle forze armate cinesi nello stretto servono “non solo da avvertimento agli USA e ai secessionisti taiwanesi”, ma anche “come prova generale della riunificazione dell’isola con la forza”.

La mancata reazione cinese a livello immediato alla visita di Nancy Pelosi non esaurisce ad ogni modo le opzioni concrete a disposizione di Pechino. La caccia all’aereo della 82enne presidente della Camera bassa del Congresso USA non avrebbe risolto nulla, ma avrebbe anzi rischiato di far esplodere un conflitto rovinoso. L’intento della Cina va ricondotto a un disegno strategico più ampio che sarà influenzato dal blitz di martedì. Ancora il Global Times a questo proposito: “la Cina userà questa provocazione americana per cambiare irreversibilmente la situazione a Taiwan, accelerando il processo di riunificazione”. Quest’ultima, d’altra parte, è “molto più importante della visita di un politico americano”.

È interessante notare come Pechino ragioni e agisca sul medio e lungo periodo, valutando attentamente le conseguenze delle proprie azioni in rapporto agli interessi supremi del paese, senza dimenticare i rischi di scontrarsi frontalmente con una potenza, come quella americana, che, nonostante il declino su praticamente tutti i fronti, detiene ancora una certa superiorità in ambito navale nel teatro dell’Estremo Oriente.

Nondimeno, la retorica cinese appare infuocata, a testimonianza sia della serietà della provocazione di Nancy Pelosi sia della necessità di continuare a proiettare un’immagine di forza anche sul fronte interno. La Cina si assicurerà inoltre che non avvengano altri episodi simili, mentre da Washington è probabile che i fatti di questa settimana vengano interpretati come un via libera all’intensificazione delle pressioni su Pechino.

Il capitolo che si apre ora è quello delle misure a cui la Cina ricorrerà come ritorsione per la visita della “speaker”. L’arma economica ha già in parte colpito Taiwan con lo stop ad alcune importazioni ed esportazioni. Provvedimenti rilevanti se si considera che l’isola e la madrepatria scambiano beni per oltre 300 miliardi di dollari all’anno e Taipei ha un surplus consistente. Per quanto riguarda gli Stati Uniti le possibilità sono ugualmente molteplici e verranno forse rivelate già nelle prossime settimane.

L’ambito più rilevante è però quello militare e ci sarà da aspettarsi parecchio movimento nelle acque attorno all’isola. Esercitazioni e pattugliamenti si moltiplicheranno con l’obiettivo di imporre la sovranità cinese su Taiwan. Le implicazione per le forze armate americane dispiegate in Asia Orientale saranno evidenti, soprattutto perché Pechino farà seguire azioni concrete alla tesi che quelle che separano la madrepatria dall’isola non sono acque internazionali.

In sostanza, come già spiegato, la promozione della riunificazione con Taiwan riceverà un impulso forse decisivo e a determinare ciò è stata appunto la visita di Nancy Pelosi di martedì, culmine finora delle politiche anti-cinesi sempre più aggressive implementate dai governi USA a partire almeno dall’amministrazione Obama. Nel rinunciare di fatto al principio di “una sola Cina” e a quello della “ambiguità strategica” nei confronti di Taiwan, Washington ha perciò la completa responsabilità di avere destabilizzato ulteriormente una regione già considerata tra le più calde a livello globale.

Dopo la crisi russo-ucraina, le vicende di questi giorni hanno dunque mostrato nuovamente a tutto il mondo da dove arrivi la minaccia alla pace e alla stabilità. Ben lontano dall’essere un successo, la sfida di Nancy Pelosi rischia di diventare una nuova tappa del percorso irreversibile verso il declino della quasi ex prima potenza economica e militare del pianeta.

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