Le cronache militari serie riportano gli avvenimenti in chiave decisamente diversa da quanto racconta Kiev su dettato angloamericano, ma quel che è certo è che i combattimenti non si riducono d’intensità. La genuflessione di Draghi a Washington ha avuto la sua prima reazione nel ricatto di Kiev a Bruxelles: l’Europa si fa dettare l’agenda energetica da Zelensky, al quale andrebbe semplicemente detto che se prova ad interrompere il gas all’Europa, sarà l’Europa a staccargli la spina e consegnarlo alla disfatta. Ma, sebbene gli interessi europei continuino ad essere una variabile minore di quelli USA, sembra farsi strada (timidamente) anche in Europa la necessità di arrivare ad una soluzione politica. Già da ora, però, le ripercussioni internazionali delle decisioni illegali occidentali in materia di sanzioni e blocco di esportazioni coinvolgono un territorio ben più ampio di quello russo o continentale.

 

Per quanto suoni ingiusto e fastidioso anche solo pensarlo, una guerra in Europa – il continente più ricco e centro nevralgico della finanza internazionale, situato tra Cina, Russia, Oceano Atlantico, Africa e Medio Oriente - non determina le stesse reazioni e conseguenze di una guerra nella (economicamente parlando) periferia del mondo.

Quando una parte intera del pianeta si fa coinvolgere per interessi geopolitici, la catena di conseguenze che si innescano è uno degli effetti della globalizzazione dell’economia, che vede un intreccio costante ed una reciproca dipendenza tra i paesi esportatori e importatori.

 

Chi paga l’allargamento della Nato?

I supporters della NATO, politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo, parlano con disinvolura di guerra convinti che dal salotto di casa si apprezzi la fiction e la distanza allo stesso tempo. Ma è proprio così? In conseguenza della guerra in Ucraina, la produzione di grano subirà una riduzione massiccia: l’Africa perderà moltissime delle sue forniture alimentari e la stessa Europa dovrà fare a meno del 40% del grano di cui ha bisogno. Il che può favorire autentiche tragedie nei luoghi dove l’indice nutrizionale risulta di gran lunga inferiore a quello corrente in Occidente. Si prevede infatti la crescita dei livelli di denutrizione nel continente africano e, con essi, l’innalzamento della mortalità e il rischio di nuove pandemie che, come si sa, non conoscono frontiere. Una crisi alimentare in paesi già al di sotto della soglia di consumo degli alimenti necessari, infatti, può facilmente innescare una vera e propria carestia con effetti devastanti sull’equilibrio sociosanitario e ambientale.

I riverberi ovvi saranno sull’Europa e la ripercussione a breve-medio termine di una crisi alimentare sarà l’incremento massiccio del fenomeno migratorio. La generalizzazione della crisi può infatti invertire il trend classico della migrazione - che è rappresentato dal movimento interno al continente africano - ed accentuare invece quello della migrazione transcontinentale, con ovvie ricadute pesanti su Italia, Turchia, Grecia e Balcani in prima istanza. L’impatto generale è difficile da calcolare, perché oltre ai noti problemi di governo e assorbimento dei flussi migratori, per la prima volta questi si darebbero in un continente che avrà già in corso una crisi energetica e alimentare a cui far fronte.

Ogni guerra ha delle caratteristiche comuni: produce odi incrociati e secolari, seppellisce integrazioni e rafforza divisioni destinate a ripresentarsi in forma nefasta nei successivi cicli storici. E per ogni guerra gli accordi di pace non esauriscono la guerra ma solo i combattimenti: le conseguenze sono pesanti e sono a breve-medio e lungo termine.

In un certo senso la guerra ma ne apre altre. Le crisi alimentari che una guerra produce rimandano all’interdipendenza della catena alimentare, ma una lettura che non si fermi all’analisi dell’epifenomeno e vada oltre, rileva come diventi prioritario il controllo delle stesse in un pianeta che dispone di risorse finite a fronte di teorie di crescita infinita. Una idea dello sviluppo non sostenuta dai dati e che proporrà quindi, con sempre maggiore centralità, la conquista di aree del pianeta che, oltre che idrocarburi e risorse minerali, siano ricche di acqua e di biosfera, autentici salvavita del secolo appena iniziato. Il tema, alla fine, è questo: le risorse sono al Sud ma il Nord ritiene di doversene appropriare.

Lo farà con guerre che riducono gli aspiranti commensali e titolari di diritti, dal momento che i think tank occidentali ritengono vi siano circa due miliardi e mezzo di persone “eccedenti” rispetto alla densità auspicabile per la governance del capitalismo. Le guerre sono certamente una maniera radicale per pensare ad un reset del problema ma anche gli strumenti finanziari come le sanzioni svolgono un ruolo nel delimitare l’accesso alle risorse attraverso l’indebolimento della crescita economica del Sud del mondo e, oltretutto, in assenza di concorrenza rendono più redditizia la vendita dei prodotti del Nord.

Il crescente ruolo delle sanzioni economiche rappresenta un fondamentale nei conflitti contemporanei. Uno strumento decisivo per il prima, durante e dopo il conflitto che tenta di abbattere le risorse del nemico procurando in automatico i vantaggi commerciali per chi le emette. I Paesi colpiti da sanzioni unilaterali statunitensi ed europei sono al momento 37 ma, secondo The Economist, le sanzioni USA colpiscono circa 100,000 persone e aziende in 50 paesi: il tutto vale il 27% del Pil mondiale.

La guerra è tragedia per i popoli e grande affare per l’indotto bellico e i suoi rappresentanti politici. Ogni punto percentuale di crescita delle azioni delle grandi multinazionali dell’apparato bellico corrisponde però ad una ecatombe umana. Gli Stati Uniti, che ad eccezione di 18 anni di pace hanno impiegato i rimanenti 228 anni della loro storia promuovendo guerre, sono il primo esportatore di armi al mondo ed hanno nel complesso militar-industriale (così lo definì Eisenhower, 34esimo presidente USA) il volano centrale della loro economia. Non è un caso allora che, essendo il primo esportatore di armi del mondo, siano anche il primo promotore di conflitti necessari alla vendita di quelle armi che, alla fine, contribuiscono a sostenere il loro fallimentare modello.

 

Le ricadute in ogni paese

I Paesi hanno vittime dirette ed indirette, perché la guerra incide nei confronti sullo squilibrio socio-sanitario. Per per un meccanismo perverso ma logico, la guerra incentiva lo spostamento di risorse destinate al welfare verso il comparto bellico e la riduzione della spesa sociale alza il livello della povertà e delle morti dovute alla ridotta capacità di sussistenza della parte più fragile della popolazione. La guerra, quindi, ha un suo connotato ideologico che si riflette sulle politiche sociali, perché con la riduzione del welfare seppellisce con i suoi morti anche l’idea di riduzione delle diseguaglianze, alzandosi così il livello del conflitto determinato dalla mancata armonizzazione dello squilibrio.

Per ultimo, ma non da ultimo, c’è poi l’aspetto ambientale di cui si deve tener conto: le sanzioni produrranno una decisa inversione di tendenza nelle politiche ambientali. La necessità di auto approvvigionarsi energeticamente indurrà pezzi interi del pianeta all’intensificazione della produzione fossile ed inquinante, abbandonando la riconversione industriale e l’abbattimento degli indici di emissione che tanto il Protocollo di Kyoto come gli Accordi di Parigi avevano stabilito. Si obietterà che nessuna delle due risoluzione contenesse accordi davvero vincolanti e che la crisi degli idrocarburi è di distribuzione e non dalla produzione. Disquisizione corretta ma accademica, perché se a monte c’è la speculazione finanziaria che istiga la decisione politica, quest’ultima a valle porta il costo a carico degli utenti.

Anche sotto il profilo dell’ordine economico internazionale la guerra in Ucraina cambia lo scenario. Con la crisi di rifornimenti di materie prime e prodotti finiti, e con l’allargamento della guerra a paesi terzi, si registra anche l’inefficacia di alcune istituzioni internazionali La prima tra tutte è l’Onu, che si posiziona al primo posto per manifesta inefficacia. Seguono poi gli organismi che, per definizione, dovrebbero svolgere una funzione di governo dei mercati globalizzati. Qui svetta l’Organizzazione Mondiale del Commercio voluta da Bill Clinton nel 1995, sei anni dopo la caduta del campo socialista, che non ha offerto dimostrazioni di esistenza nemmeno sui temi della illegittimità delle sanzioni, figuriamoci sulla guerra. Si disse che la vecchia struttura esistente (GATT) non era adeguata alla nuova fase storica dell’economia globalizzata, dove la riduzione progressiva delle barriere commerciali avrebbe unito il mondo in un’interdipendenza e una riorganizzazione del mercato del lavoro sempre più integrato.

In realtà la decisione di Clinton era un modo per riposizionare il comando unico statunitense sul commercio internazionale e decisamente meno confessabili erano gli aspetti concreti dell’operazione, che negli immensi territori appartenenti all’URSS prevedeva l’invasione massiccia di prodotti statunitensi a fronte di un saccheggio deciso delle risorse di sottosuolo. Il tutto parallelamente al controllo politico sul governo russo, che avrebbe ricondotto anche al controllo da parte statunitense del potenziale bellico strategico ex-sovietico. Gli USA sarebbero rimasti unico paese al mondo a possedere un armamento nucleare di tipo strategico, ovvero con missili balistici intercontinentali; la fine dello spettro della risposta rapida e dell’autodistruzione del pianeta avrebbe cambiato per sempre la dottrina militare statunitense e la sua vocazione imperiale non avrebbe incontrato ostacoli di sorta. Progetto che viaggiava a gonfie vele fino all’arrivo Putin.

A circa 30 anni di distanza e dopo aver quasi esaurito il processo di allargamento ad Est del suo comando politico e militare, una dimostrazione di quanto l’ambizione statunitense sia la vera agenda della NATO e la prima causa della guerra in Ucraina sta nelle recenti dichiarazioni di Stoltemberg, per il quale “la NATO non accetterà mai la Crimea in mano alla Russia”.

Come se toccasse alla NATO decidere le sorti di un contenzioso che riguarda Russia e Ucraina, ovvero intervenire in un territorio dove la NATO nemmeno è formalmente presente. Gli USA hanno imposto al G7 una linea che sconfessa ogni tipo di negoziato e propone il perdurare e l’approfondimento della guerra. Si svela così l’obiettivo vero della NATO: la disfatta militare, politica ed economica della Russia. Come ha denunciato Papa Francesco, “il latrare della Nato alla porta della Russia” ha fornito un motivo per questa guerra. Emerge con nettezza, facile da leggere anche ai nostri valvassini microfonati a reti unificate, quanto la posta in gioco non sia la difesa dell’Ucraina ma la guerra alla Russia. Il che apre alla Terza ed ultima guerra mondiale.

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