Gli ultimi sviluppi delle vicende militari in Ucraina hanno svelato definitivamente le intenzioni degli Stati Uniti e della NATO, portando alla luce anche a livello ufficiale l’obiettivo occidentale di annientare la Russia come paese sovrano. Le dichiarazioni più recenti di esponenti di primo piano dell’amministrazione Biden lasciano pochi dubbi in proposito, ma tutte da verificare saranno però le possibilità reali di mettere in ginocchio la Russia. L’intera “potenza” americana e del Patto Atlantico, assieme al contributo di altri alleati, non era infatti bastata a evitare, tra le altre, l’umiliazione in Afghanistan e, infatti, le prospettive immediate per il regime di Kiev e i suoi sponsor non appaiono incoraggianti. Fatto salvo uno scontro nucleare dalle conseguenze a malapena immaginabili, l’unica strategia realistica al momento per l’Ucraina e l’Occidente sembra essere il prolungamento a oltranza del conflitto, anche se a un prezzo salatissimo per l’incolpevole popolazione dell’ex repubblica sovietica.
La maschera americana è caduta in occasione della trasferta europea del segretario di Stato, Anthony Blinken, e del numero uno del Pentagono, Lloyd Austin. Quest’ultimo, in una conferenza stampa in Polonia, dopo avere incontrato Zelensky a Kiev, ha usato deliberatamente il “noi” per sottolineare l’impegno messo in campo per “vincere” la guerra. Nelle prime settimane dopo l’inizio delle ostilità, quanti sostenevano che il conflitto era da ricondurre a uno scontro tra Russia e NATO, con la prima messa con le spalle al muro, venivano bollati come “cospirazionisti”. Ora, invece, a Washington e in Europa si discute apertamente sui piani per “indebolire” Mosca e fare in modo, idealmente attraverso un cambio di regime al Cremlino, che la Russia non rappresenti più una “minaccia” o che un’invasione come quella dell’Ucraina non si ripeta in altri paesi.
Questo cambio di rotta in termini di retorica da parte dell’Occidente ha un’immediata preoccupante implicazione, ovvero il rischio di una guerra diretta con armi nucleari. Solo a metà marzo, il presidente americano Biden, nel frenare le richieste dei “falchi” anti-russi, spiegava che uno scontro diretto con Mosca avrebbe significato “la terza guerra mondiale” ed era quindi da evitare. Poco più di un mese dopo, di fronte allo sbando delle forze armate ucraine, la Casa Bianca ha invece imboccato a tutta velocità precisamente questa strada.
La direzione presa dalla guerra è spiegabile appunto con le ragioni alla base di essa e che nulla hanno mai avuto a che vedere con la difesa di una inesistente democrazia ucraina. Il coinvolgimento nelle vicende ucraine è tale, almeno dal golpe neo-nazista del 2014, che la credibilità degli USA e i piani strategici per invertire il declino della loro influenza globale passano per la sconfitta della Russia, considerata un elemento decisivo per affrontare in seguito la questione della Cina.
In questo scenario, è inevitabile che non ci sia spazio per la ricerca di una soluzione pacifica alla crisi. L’amministrazione Biden aveva di fatto boicottato i negoziati tra Mosca e Kiev ancora quando i veri obiettivi del conflitto non venivano riconosciuti pubblicamente ed è quindi ancora meno probabile che una via d’uscita attraverso la diplomazia, con il riconoscimento in primo luogo dello status neutrale dell’Ucraina, si verifichi nel prossimo futuro. L’ex ambasciatore indiano M. K. Bhadrakumar, a proposito della situazione venutasi a creare, ha spiegato che “l’agenda di Biden prevede il prolungamento del conflitto”, così da “fare dell’Europa un campo di battaglia e renderla dipendente dalla leadership americana per molto tempo”, grazie allo sganciamento forzato dalla Russia in ambito energetico ed economico, con conseguenze negative inoltre sui progetti di integrazione euro-asiatica promossi da Pechino.
Ramstein e i Panzer tedeschi
L’aggravarsi della crisi in Ucraina e l’allontanarsi di una soluzione pacifica, i cui termini erano peraltro da anni scritti nero su bianco nei mai implementati accordi di Minsk, si manifesta in primo luogo con l’invio al regime di Zelensky, alle forze armate di Kiev e alle formazioni neo-naziste di materiale bellico sempre più sofisticato o, comunque, da utilizzare potenzialmente in funzione offensiva. Il segretario alla Difesa americano Austin ha spiegato qualche giorno fa che verranno “mossi cielo e terra” pur di dotare l’Ucraina delle armi necessarie al raggiungimento degli obiettivi americani. Washington ha già garantito equipaggiamenti per 3,7 miliardi di dollari dall’inizio della guerra, mentre la Germania ha appena promesso di stanziare altri due miliardi. Giovedì, l’amministrazione Biden ha fatto sapere di avere chiesto al Congresso addirittura 33 miliardi di dollari da spendere per armi, aiuti umanitari e a sostegno dell’economia ucraina.
Armi pesanti come carri armati, pezzi di artiglieria e mezzi aerei sono d’altra parte indispensabili per “spezzare la schiena” alla Russia. Per coordinare questo sforzo, Washington ha organizzato nei giorni scorsi un vertice con i propri alleati presso la base militare USA di Ramstein, in Germania. Qui dovrebbe riunirsi mensilmente una sorta di “Gruppo di Contatto”, composto dai vertici militari dei vari paesi NATO, per pianificare gli aspetti logistici e strategici della guerra contro Mosca. Se la facciata del fronte anti-russo appare più o meno compatta, continuano a trapelare segnali di inquietudine per la deriva che la crisi ha intrapreso. La notizia di questa settimana della decisione del cancelliere tedesco Scholz di arrendersi alle pressioni per alzare il livello delle forniture di armi all’Ucraina dà forse l’idea delle contraddizioni che caratterizzano le scelte oggettivamente suicide dell’Europa.
In seguito all’ingigantirsi dell’ondata anti-russa negli ambienti politici e dei media tedeschi, Scholz ha dato il via libera al trasferimento in Ucraina di una cinquantina di vecchi carri armati anti-aereo “Gepard” dismessi da anni dalle forze armate tedesche. La stampa ufficiale ha salutato la decisione del governo di Berlino come una svolta, soprattutto dopo che solo alcuni giorni prima il cancelliere socialdemocratico si era mostrato freddo sull’ipotesi di inviare direttamente questi mezzi a Kiev.
Un approfondimento sulla decisione tedesca pubblicato dal blog Moon Of Alabama ha tuttavia ridimensionato almeno in parte l’impatto della decisione della Germania. Basandosi sulla propria esperienza nell’esercito tedesco, l’autore dell’articolo ha spiegato che l’efficacia dei “Gepard” come sistema anti-aereo è molto limitata dal momento che hanno un raggio di pochissimi chilometri. Non solo, secondo Moon Of Alabama, se anche questi carri armati tedeschi dovessero arrivare a destinazione, difficilmente potranno essere impiegati sul campo a breve. Il funzionamento dei mezzi è piuttosto complesso e richiede dai sei ai dodici mesi di addestramento per poterli condurre in modo adeguato. Nell’esercito tedesco sarebbero rimasti poi a malapena una decina di militari capaci di manovrare un “Gepard” e quindi in grado di addestrare gli ucraini.
A ciò va aggiunta la notizia che la Svizzera, dove vengono fabbricati i cannoni e le munizioni destinati ai “Gepard” tedeschi, ha messo il veto sull’esportazione di questo materiale da spedire a Kiev. Per Moon Of Alabama, quindi, la decisione di Scholz sarebbe un modo per allentare le pressioni sul suo governo evitando di contribuire all’escalation in Ucraina. Anche se così fosse, in Germania non sembra comunque prevalere la prudenza. Oltre al denaro promesso a cui si è accennato in precedenza, il ministro della Difesa, Christine Lambrecht, ha invitato gli altri paesi europei con disponibilità di materiale bellico a spedirlo in Ucraina, dopodiché sarà Berlino a pagare il conto o a rifornire questi ultimi.
Il dilemma logistico
L’accelerazione delle forniture di armi a Kiev è stata oggetto di un serio avvertimento del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, il quale ha messo in guardia circa le conseguenze di quella che sarebbe a tutti gli effetti l’entrata in guerra della NATO contro Mosca. Lavrov ha aggiunto che i convogli di armi provenienti da Occidente e destinati al regime di Zelensky rappresentano “bersagli legittimi” per il fuoco russo. Bombardamenti mirati contro equipaggiamenti spediti da paesi NATO sono già stati condotti più volte in queste settimane e potrebbero aumentare sensibilmente con l’intensificarsi dello sforzo a favore dell’Ucraina.
Questo aspetto del conflitto solleva un problema logistico al momento irrisolvibile per Kiev. Anche se tutte le armi promesse dovessero oltrepassare il confine ucraino, non è chiaro come potrebbero arrivare al fronte orientale, teatro principale del conflitto con la Russia. Dopo oltre due mesi di una campagna militare che, al contrario di quanto si sostiene in Occidente, ha raggiunto gli obiettivi fissati dal Cremlino, l’Ucraina non è in grado di trasportare rifornimenti militari per via aerea, né su strada né su rotaia. Le forze aeree sono state distrutte e la Russia controlla i cieli ucraini. Le ferrovie sono state interrotte da ripetuti bombardamenti, in particolare negli ultimi giorni, mentre i mezzi su gomma non sono sufficienti e, in ogni caso, se anche lo fossero diventerebbero bersagli fin troppo facili per i russi. Stesso discorso vale per le rotte d’acqua, avendo l’Ucraina perso quasi subito l’accesso al mare di Azov e al Mar Nero.
I rubinetti del gas
L’altra notizia calda sul fronte ucraino riguarda ancora una volta il gas. Mosca ha sospeso le forniture a Polonia e Bulgaria dopo il mancato pagamento in rubli, come richiesto dal Cremlino, delle forniture di aprile. Come previsto, la decisione ha scatenato la reazione dei burocrati di Bruxelles, con la presidente della Commissione Europa, Ursula von der Leyen, protagonista di una patetica denuncia del “ricatto” di Putin. Per la discendente di una famiglia di nazisti convinti, la chiusura dei rubinetti del gas sarebbe “ingiustificata e inaccettabile”, mentre apparentemente lo sarebbero le sanzioni imposte contro Mosca, il furto delle riserve russe depositate in Occidente o l’appoggio alle milizie neo-naziste ucraine.
La mossa di Putin sul pagamento in rubli sta ad ogni modo producendo i risultati previsti. L’Europa si sta infatti dividendo sulla questione, con alcuni paesi che hanno già aperto conti in valuta russa presso la banca Gazprom, dove verranno convertiti i pagamenti in euro. Così hanno già deciso ufficialmente Ungheria, Slovacchia, Austria e, dietro pressioni degli industriali, Germania. Per quanto riguarda l’Italia, ENI sarebbe pronto ad aprire a sua volta un conto in rubli e attenderebbe ora “indicazioni” dal governo.
Le diverse posizioni dei paesi UE confermano come i prodotti energetici russi restino cruciali e le politiche autolesioniste implementate sotto dettatura di Washington rischino di gettare il continente in una grave crisi economica. Ciononostante, a Bruxelles non si discute di come allentare le tensioni e favorire il processo diplomatico, bensì di un sesto pacchetto di sanzioni. Dalle notizie sull’argomento pubblicate dai media ufficiali emerge un quadro surreale, nel quale l’Europa sta studiando formalmente nuove misure per penalizzare la Russia, come l’embargo petrolifero, ma che in realtà finiranno per colpire gli stessi paesi che intendono applicarle.
Un altro possibile provvedimento allo studio per limitare i danni causati dalle stesse scelte suicide di Bruxelles dà l’idea del livello infimo raggiunto dai leader europei. Per non lasciare i paesi come Polonia, Bulgaria e, probabilmente, Finlandia senza la quota di gas importato dalla Russia, i loro vicini potrebbero, tra l’altro, aumentare le scorte e vendere poi a questi ultimi una parte di quello acquistato sempre da Gazprom dopo averlo pagato, ovviamente, in rubli.