Mentre il governo del Regno Unito è ufficialmente impegnato nello sforzo epocale di difendere la “democrazia” ucraina contro l’aggressione del dittatore Vladimir Putin, un tribunale di Londra ha dato il via libera formale all’estradizione negli Stati Uniti del fondatore di Wikileaks, Julian Assange. L’ultima parola su quella che potrebbe essere a tutti gli effetti una condanna a morte per il giornalista australiano spetterà a Priti Patel, ministro degli Interni dell’esecutivo autoproclamatosi paladino dei diritti democratici in Ucraina. Un’estrema possibilità di appello resta ora ai legali di Assange, ma le speranze non sono maggiori di quelle nutrite durante tutti i processi-farsa di questi anni. La lunga detenzione illegale, le torture e la puntuale negazione dei suoi diritti fondamentali fanno del caso Assange un esempio macroscopico sia della duplicità della retorica democratica anglo-americana sia della deriva repressiva e autoritaria di quei governi che inveiscono con cadenza quotidiana contro la barbarie russa.

La richiesta di estradizione era stata presentata alla giustizia britannica dopo il rapimento di Assange dalla sede dell’ambasciata ecuadoriana nell’aprile del 2019 per essere trasferito nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. L’aspetto più incredibile di tutto il procedimento che ne è seguito fino alla decisione di mercoledì della corte di Westminster è che la sorte di Assange sarà alla fine quella prevista fin dall’inizio, nonostante in questi tre anni siano diventati di dominio pubblico, grazie soprattutto alla stampa indipendente, tutti i dettagli degli abusi e della campagna persecutoria orchestrata nei suoi confronti.

Assange aveva ottenuto un verdetto relativamente favorevole nel gennaio del 2021, quando la stessa corte che ha deliberato mercoledì aveva respinto l’estradizione basandosi su considerazioni relative al suo stato di salute mentale. Il soggiorno in un carcere americano con l’applicazione di misure ultra-restrittive avrebbe cioè fatto aumentare sensibilmente il rischio di suicidio. Gli sviluppi successivi hanno avuto però tutti i contorni di una messa in scena, nella quale i governi di Washington e Londra si sono coordinati per arrivare al ribaltamento della sentenza contraria agli Stati Uniti.

Il dipartimento di Giustizia USA aveva “rassicurato” che Assange non sarebbe stato sottoposto alle cosiddette “Misure Amministrative Speciali” (SAMs), ovvero al carcere duro, una volta detenuto in territorio americano. Il processo di appello aveva visto sfilare un lungo elenco di autorevoli testimoni della difesa che, in qualsiasi tribunale democratico, avrebbero portato all’immediata archiviazione del caso Assange. Nel corso dei dibattimenti erano anche emerse, da un lato, le pessime condizioni detentive del fondatore di WikiLeaks e, dall’altro, la gigantesca cospirazione ai suoi danni organizzata dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Ecuador e Svezia, nonché dai rispettivi servizi segreti.

L’Alta Corte britannica aveva così cassato la sentenza contraria all’estradizione, rimandando il caso al tribunale di Westminster. Le “rassicurazioni” americane su cui si è basato tutto il procedimento di appello erano sembrate fin dall’inizio inconsistenti. Oltre al fatto che tutti gli organi del governo americano violano regolarmente gli impegni presi in qualsiasi ambito, anche a livello formale la garanzia che Assange non venga sottoposto alle “Misure Amministrative Speciali” è estremamente esile. Infatti, questi provvedimenti potranno essere applicati se Assange dovesse tenere un comportamento tale da giustificarne l’adozione. È evidente quindi che ci si trovi in presenza di una questione interpretabile a piacimento da Washington e una circostanza qualsiasi, come un “tweet” o una semplice dichiarazione pubblica di Assange, farebbe scattare il regime di detenzione più rigido.

C’è un altro elemento che la giustizia britannica ha scartato completamente e su cui, come sembra, i legali di Assange cercheranno di insistere nell’ultimo appello contro l’estradizione. La decisione dell’Alta Corte di rovesciare il verdetto favorevole ad Assange perché le sue condizioni mentali, dopo le rassicurazioni USA, non erano più incompatibili con la detenzione in America era stata presa il 10 dicembre 2021, cioè poco dopo che il 50enne giornalista era stato colpito da un “mini-ictus”. Questa notizia era trapelata solo dopo la sentenza dell’Alta Corte e, secondo molti esperti di diritto, le nuove condizioni di Assange non sarebbero state tenute in considerazione, visto che la possibile incompatibilità con il sistema detentivo americano era stata valutata solo per l’aspetto psicologico e non per quello fisico.

Nel nuovo processo-farsa con esito già scritto che Assange dovrà sostenere una volta negli Stati Uniti si prospetta una condanna fino a un massimo di 175 anni. Le accuse sono state formulate in base all’ultra-reazionario “Espionage Act” del 1917, assurdamente applicato in questo caso a un giornalista, la cui attività risulta protetta anche dalla Costituzione USA, oltretutto operante al di fuori della giurisdizione americana. Secondo il dipartimento di Giustizia, Assange avrebbe cospirato nell’hackeraggio dei sistemi informatici del Pentagono per ottenere documenti riservati.

WikiLeaks, tuttavia, ha semplicemente agito da testata giornalistica ricevendo il materiale sui crimini USA da fonti di cui, spesso, non conosceva nemmeno l’identità. In merito a queste accuse, inoltre, qualche tempo fa c’era stata una confessione pubblica del presunto “co-cospiratore” nei crimini di Assange, l’islandese Sigurdur Thordarson, nella quale smentiva categoricamente di avere subito pressioni dal numero uno di WikiLeaks per penetrare i computer del Pentagono. Anche se le accuse americane si basavano in larga misura sulla testimonianza di Thordarson, noto informatore dell’FBI con varie condanne sulle spalle, i nuovi sviluppi favorevoli ad Assange non sono mai stati presi in considerazione dai tribunali britannici.

Come detto all’inizio, toccherà ora al ministro degli Interni di Londra, Priti Patel, mettere la firma sul provvedimento di estradizione. I legali di Assange potrebbero sottoporre una richiesta di sospensione alla stessa Patel o presentare un nuovo appello all’Alta Corte dopo che il ministro avrà dato il via libera al trasferimento negli USA, come appare ormai certo. Come già rilevato per un giudice coinvolto nei procedimenti di questi anni, anche per il membro del governo Johnson che decreterà la sorte di Assange sono documentati preoccupanti conflitti di interesse che, anche tralasciando il merito dei processi-farsa subiti finora, dovrebbero quanto meno sollevare sospetti sulla legittimità della sua decisione.

Secondo documenti esaminati dal sito Declassified UK, Priti Patel per alcuni anni aveva ricoperto l’incarico di “consigliere” della Henry Jackson Society (HJS), un “think tank” londinese con legami documentati alla CIA e molte prese di posizione pubbliche contro Assange e WikiLeaks. Nella lunga analisi del ruolo della HJS, pubblicata a fine marzo da Declassified UK, emergevano alcuni elementi che rendono il ministro degli Interni britannico ancora meno neutrale nel caso Assange di quanto già non lo sia in qualità di esponente di un governo che ha cospirato con Washington per la sua eliminazione.

La società di cui la Patel ha fatto parte includeva per cominciare anche Lord Arbuthnot, membro del Partito Conservatore e marito della giudice Emma Arbuthnot, incredibilmente responsabile di due sentenze nel caso Assange. Negli anni scorsi, la HJS aveva poi ospitato conferenze di alcuni direttori della CIA e nell’estate del 2020 dell’ex numero uno dell’agenzia di Langley, l’allora segretario di Stato Mike Pompeo, noto per avere definito WikiLeaks “un servizio di intelligence ostile” agli Stati Uniti. Ancora più compromettenti sono state le dichiarazioni contro Assange e WikiLeaks di numerosi esponenti di spicco della Henry Jackson Society, come quella particolarmente minacciosa del 2011 dell’allora “direttore associato”, Douglas Murray.

La feroce persecuzione contro Assange ad opera delle “democrazie” anglo-sassoni è direttamente collegata alla pubblicazione su WikiLeaks delle prove dei crimini americani in Iraq e in Afghanistan, così come dell’utilizzo da parte della CIA e della NSA di strumenti di sorveglianza da regime totalitario. La liquidazione di Assange è diventata inoltre ancora più necessaria con l’esplosione del conflitto in Ucraina e il lancio di una massiccia campagna di disinformazione in Occidente. Se uno degli obiettivi è quello di fare di Putin un criminale di guerra agli occhi dell’opinione pubblica, non è tollerabile che un giornalista possa esercitare liberamente la propria professione mettendo a nudo i crimini di gran lunga più gravi di cui si sono macchiati gli Stati Uniti e i loro alleati.

In questo senso, il tempismo della decisione finale di estradare Julian Assange appare emblematico, dal momento che coincide con la durissima repressione di qualsiasi voce di opposizione operata proprio dal regime ucraino. Di questi giorni è ad esempio la notizia del probabile assassinio per mano degli uomini del battaglione neo-nazista Azov del giornalista cileno-americano, Gonzalo Lira, impegnato a raccontare sul campo e in totale libertà la guerra in corso. Nel silenzio delle “democrazie” occidentali, sempre mercoledì si è diffusa anche la notizia dell’uccisione a Kherson con una raffica sparata a distanza ravvicinata del blogger “filo-russo” Valery Kuleshov.

L’eliminazione anche fisica di blogger, giornalisti e politici di opposizione da parte di Zelensky e delle milizie neo-naziste appoggiate dall’Occidente ha in fin dei conti lo stesso scopo della persecuzione decennale di Assange: occultare i crimini delle forze “democratiche” e denunciare, con una colossale operazione di propaganda e disinformazione, nemici e rivali non allineati agli interessi dell’impero e dei suoi docili alleati.

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