Managua. Raccontare le elezioni in Nicaragua non è la stessa cosa che raccontarle altrove. In generale e soprattutto nel contesto regionale centroamericano, visto che è l’unico Paese ad andare al voto sotto sanzioni statunitensi. Quelle che ci sono si accompagnano a quelle che si minacciano - legge Renacer ed altro - e ad attacchi di natura censoria ai social media. D’altra parte il Nicaragua sandinista è l’unico paese della regione considerato da Washington un nemico, anzi – come recita una comica quanto perversa disposizione presidenziale di Trump – “una minaccia di insolita gravità per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

 

Le elezioni in Nicaragua, dunque, sono una storia diversa da quelle dell’intero centroamerica. Nessun altro Paese dell’area soffre una polarizzazione politica così accentuata, proprio perché nessun altro Paese centroamericano rivendica indipendenza da Washington e legifera in esclusivo favore dei suoi interessi nazionali e non in favor di vento a quelli statunitensi. In questa terra di laghi, vulcani, oceani ed allegria, il sandinismo ha tracciato una linea netta, impossibile da superare, tra un “prima” e un “dopo”.

Su quel “prima” e su quel “dopo” si sono scritte due storie inconciliabili, due idee di cosa debbano essere un Paese, un popolo e un destino che hanno rappresentato l’essenza del conflitto tra destra e sinistra. Ebbene sì, non siamo in Europa: qui i due termini hanno ancora vigenza, resistono all’usura della semantica distorta dal politichese, raccontano storie distanti e disegnano scenari opposti, raffigurano due alternative nette e inconciliabili, entrambe già applicate in carne propria.

Il Paese di oggi, governato dal sandinismo in questi ultimi 14 anni, non somiglia nemmeno da lontano a quello governato da sedici anni di liberismo post-somozista. Si può giocare con le definizioni, si può far ballare le parole sulle punte, si possono scambiare fatti con opinioni ma non si può togliere la vista. E la vista dice che qui ed ora si tratta di pavimenti e non più di terra battuta, di tetti e non più di corpi in debito di sorte con le intemperie. Si tratta di ospedali e di luce, di cibo, di case e di scuole, si tratta di strade. Si tratta di ridimensionamento dei privilegi di classe parallelamente all’ampliamento dei diritti sociali collettivi. Qui escono di scena selezioni innaturali basate sul censo, storture razziali e vocazioni all’obbedienza verso il dottor Malinche. Si registrano prove generali di uguaglianza, certificati di diritti certi.

Ma  i cannoni mediatici che trasformano la libertà di stampa nella libertà di chi possiede i media si sono fatti sentire senza sosta. Inchiostro intinto nel veleno per riportare sotto il comando dell’odio ogni dissenso, per trasformare in guerra ogni discussione. Si è trattato di un tentativo di azzeramento del dibattito politico come primo passo per l’abbattimento del sistema politico.

L’aggressione ripetuta al Nicaragua dal 2018 ad oggi ha avuto ed ha tutti i sintomi di una operazione di regime change. Una manovra a tenaglia tra l’estero e l’interno studiata a tavolino, un tentativo di golpe che di soave non ha avuto nulla. Proprio questa offensiva politica, diplomatica, mediatica e militare ha costretto il sandinismo ad una risposta ferma, priva di tentennamenti e di prudenza. La risposta ha dovuto, non solo voluto, essere senza appello, per i fronzoli della dialettica non si è trovato il tempo. La valutazione sui coefficienti di rischio, sulla opportunità o la convenienza politica non ha prodotto tentennamenti, incertezze: la risposta è stata sempre puntuale e dura. Leggere come una partita a scacchi quella che era, con tutta evidenza, una corrida, è sembrato inutile. Rispondere con garbo al’infamia è apparso fuori luogo.

Quella del 7 novembre è una partita particolare, giacché l’avversario é in campo ma il nemico si trova sugli spalti e nelle retrovie. Ci sono sei partiti che disputano al FSLN la vittoria elettorale, ma lo scontro è con gli Stati Uniti, che a loro volta trascinano nell’aggressione le loro dependance, ovvero Unione Europea e OSA.

I programmi elettorali fanno capolino a fatica dalle fila delle opposizioni. Comprensibile, cosa dovrebbero dire? Che vogliono privatizzare quello che oggi è pubblico? Che vogliono riconsegnare il Nicaragua agli Stati Uniti? Complicato chiedere ai nicaraguensi se siano disposti a tornare ai tempi di fame del neoliberismo e non meno difficile chiedergli di scegliere tra indipendenza e annessione.

Il sandinismo appare solido, il consenso di cui gode è fortissimo. Se così stanno le cose, il risultato è solo una formalità? No, perché in primo luogo l’espressione della sovranità popolare non è mai una formalità ed in secondo luogo perché questo appuntamento è stato boicottato e disconosciuto pregiudizialmente proprio dai nemici del sandinismo. Dunque la celebrazione del voto assume su di sé il doppio valore del rito democratico e della sfida politica, della riaffermazione convinta della sovranità e della reiterazione di un cammino deciso dai nicaraguensi in Nicaragua e non da altri ed altrove.

I sondaggi di questi mesi non offrono possibilità di interpretazione. A meno di impensabili rovesci, il risultato che si profila è l’ennesima, schiacciante vittoria del Frente Sandinista. Se proprio però si vuole cercare un aspetto meno decifrabile allora meglio occuparsi dell’affluenza al voto. L’insidia, infatti, per il FSLN sta solo nell’astensione. Ovvero in quel meccanismo di apatia e sufficienza che viene determinandosi in scenari dove tutto appare scontato.

La partecipazione al voto sarà di assoluto livello anche se, certo, un 40/45 % di voti sarebbe già più che sufficiente a rispondere alle critiche che perverranno da chi non arriva nemmeno al 35% dell’affluenza. D’altronde, quelle in Nicaragua sono una cosa seria sulla quale Washington farebbe bene a evitare critiche e minacce. Basta ricordare la farsa delle ultime elezioni negli USA per capire che impartire accademia dal podio ignorante non é serio. L’offensiva interminabile degli Stati Uniti contro il Nicaragua, prodotto di un rancore immarcescibile lungo ormai un secolo, dice di per sé da che parte sta la ragione. Diranno ogni infamia per delegittimare il voto ma la verità è che le elezioni sono libere e trasparenti.

Lo spettacolo miserabile di minacce, censura e aggressione non impediranno l’ennesima allegria. Le urne in Nicaragua sono magiche: le schede entreranno nello spazio fine dell’urna e riusciranno fuori sotto forma di colombe. Voleranno impertinenti e allegre dal basso verso l’alto, a scoperchiare nuvole, come ogni speranza impone.

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