Con un saldo commerciale permanentemente in rosso, con un Congresso che ogni anno deve decidere se superare o meno il tetto della spesa pubblica precedentemente stabilito, ovvero se aumentare ulteriormente il livello del debito che oggi si attesta al 123% del PIL degli Stati Uniti, per un ammontare di 28,4 trilioni di dollari, la politica di Trump sui dazi è il risultato della crisi strutturale dell’economia statunitense. quest'anno al Tesoro statunitense toccherà collocare altri 2 trilioni di dollari in debito e oltre 500 miliardi in interessi, che si aggiungono al trilione che già paga ogni anno.

I dazi non coprono questo fabbisogno e non aiutano né la macroeconomia - perché generano un punto in più di inflazione, già pericolosamente al 3,1% - né la microeconomia, dato che i consumatori statunitensi pagano 57 miliardi di dollari in più ogni anno a causa delle tariffe, con un conseguente significativo aumento del costo della vita. Allora, perché tanta insistenza, per di più con una dimostrazione di volatilità che danneggia fortemente le borse e produce un’immagine di scarsa affidabilità e credibilità dell’Amministrazione?

I dazi sono uno strumento per negoziare nuovi equilibri. In altre parole, gli Stati Uniti si salvano se il loro debito viene pagato dagli altri. Normalmente, il debito viene finanziato attraverso la vendita di titoli di Stato e stimolando la domanda di dollari, il che rafforza l’economia riducendo l’impatto netto dell’esposizione.

Come segnala il Global Times, gli Stati Uniti hanno rappresentato a lungo oltre il 25% del PIL globale e il dollaro, come valuta internazionale dominante, ha costituito circa il 60% delle riserve globali in valuta estera. Con questi vantaggi, gli Stati Uniti hanno raccolto enormi benefici dalla globalizzazione economica e dal sistema egemonico basato sul Dollaro, diventando il maggiore beneficiario del libero scambio e dell’attuale ordine economico internazionale.

Tuttavia, negli ultimi anni, l’arroganza imperiale e la continua promozione della destabilizzazione planetaria, dalla quale traggono dividendi per il loro ruolo di gendarme mondiale, non solo hanno progressivamente ridotto l’area di commercio possibile (già ristretta dalle sanzioni che colpiscono 24 paesi, pari al 73% della popolazione mondiale), ma hanno anche spinto molti paesi a ridurre le loro riserve strategiche in dollari. L’uso del dollaro come bastone sulla testa di concorrenti e avversari politici ha generato preoccupazione, perché si è persa la fiducia negli Stati Uniti e nella loro capacità di garantire il rispetto assoluto del sistema di garanzie bancarie.

 

Il mondo cambia senza il consenso di Washington
Questo ha modificato sensibilmente il contesto generale e oggi gli investitori istituzionali e privati riducono investimenti e depositi in dollari, che così rischiano di perdere la loro posizione come bene rifugio, insieme ai Titoli di Stato statunitensi. Di fatto, la vendita di depositi e titoli statunitensi, soprattutto da parte della Cina (ma non solo), è aumentata fortemente, poiché tutti gli indicatori economici stavano entrando in territorio negativo.

Ciò è dovuto certamente a due fattori: l’instabilità economica degli Stati Uniti e la perdita di leadership economica, commerciale, politica e militare. In tal senso, la sconfitta statunitense in Ucraina ha avuto un valore paradigmatico e l’accumularsi di sconfitte sul piano politico e militare (quella ucraina è clamorosa) ha evidenziato una scarsa capacità strategica.

A questo declino, a questa perdita di influenza planetaria, si aggiunge la potente crescita della Cina, la resistenza vincente della Russia, l’avanzata di una politica sovrana in Africa e, soprattutto, l’espansione progressiva dei BRICS, un blocco che promette maggiore libertà d’investimento, più rispetto per la sovranità politica degli Stati e che protegge dagli Stati Uniti, che usano il dollaro e il sistema internazionale di transazioni (SWIFT) come manganello politico contro i propri avversari.

I BRICS, che oggi rappresentano già circa il 40% del PIL e il 51% della popolazione mondiale, sostengono una globalizzazione economica vantaggiosa e inclusiva per tutti, e intensificano gli scambi commerciali reciproci che non richiedono l’uso del Dollaro. Il risultato è una minore domanda di dollari, che però sono quelli che garantiscono la liquidità di cassa per il debito degli Stati Uniti.

In sintesi, ciò indebolisce l’importanza e la supremazia degli Stati Uniti nei mercati e genera una perdita strategica. E si è già consolidata una tendenza di spostamento generale dei capitali dal Nord verso il Sud e verso l’Est, accompagnando e sostenendo le economie emergenti che domandano mercati, influenza politica e rivendicano il riconoscimento degli interessi del Sud Globale e dell’Est. Il multipolarismo dispone ormai di forza economica e commerciale, non solo politica e militare.

Trump minaccia i BRICS con forti dazi se continueranno a promuovere la de-dollarizzazione. Ma è già tardi: ciò che è accaduto prima con gli asset del Venezuela e poi con quelli della Russia ha generato una enorme sfiducia tra gli Stati, che operano sui mercati attraverso le loro banche e i fondi sovrani. In fondo, ogni dottrina economica si basa sul principio di affidabilità e credibilità, e il modello di governance non può ignorarlo. Nel momento in cui si perde la credibilità e la fiducia nell’agire corretto del sistema bancario, i giocatori si alzano dal tavolo e la partita è persa.

 

La reazione della Cina
Per ora, Pechino risponde con dazi del 124% sulle merci importate dagli Stati Uniti. La reazione cinese è caratterizzata da fermezza in assoluta calma. In una situazione di estrema volatilità, Pechino evita di gettare altra benzina sul fuoco: non sarebbe salutare. Vedere gli Stati Uniti guidati da un giocatore compulsivo consiglia prudenza, sebbene vigile e capace di risposte dure se necessarie. Sa che, comunque, nemmeno a lei conviene lo scontro frontale con l’economia USA, il costo da pagare sarebbe comunque molto alto.

Costretto dalle grandi aziende tecnologiche, Trump ha stabilito che dai nuovi dazi sono esentati smartphone, computer e i macchinari utilizzati per produrre semiconduttori, televisori a schermo piatto, tablet e PC dai dazi doganali reciproci, compresi quelli del 125% imposti alle importazioni cinesi: alla fine, i CEO della Silicon Valley hanno alzato la voce e la Casa Bianca ha dovuto comprendere il rischio per le Big Tech. Basta considerare che l’80% degli iPhone che circolano negli Stati Uniti sono prodotti in Cina.

In termini generali, le minacce di Trump sono, in effetti, gravi ma non serie. Non lo sono perché risultano insostenibili nel medio e lungo periodo. La capacità degli Stati Uniti di influenzare l’economia globale si è ridotta rispetto al passato. Il loro livello di importazioni rappresenta il 13% del totale globale (cinque anni fa era il 20%). Anche se gli Stati Uniti interrompessero completamente le importazioni dai loro 185 partner commerciali, 70 di questi riuscirebbero a compensare la perdita in un anno, e gli altri 115 nei quattro anni successivi. Per i produttori statunitensi di hardware, invece, sarebbe complesso riorganizzare le catene di approvvigionamento nel breve termine: i costi di sostituzione sarebbero altissimi.

Se Pechino, che è già molto più avanti degli Stati Uniti nei campi dell’elettrico, della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, decidesse di interrompere l’esportazione di terre rare e altri prodotti verso gli USA, questi non sarebbero in grado di affrontare l’emergenza nel breve-medio periodo, mentre altri mercati – europei, asiatici e africani – potrebbero compensare ampiamente la perdita del mercato statunitense.

La Cina dispone di opzioni che renderebbero particolarmente fragile Washington: ritirare dalle borse statunitensi i 300 miliardi di dollari delle aziende cinesi ancora lì quotate e ricollocarli nell’area dell’euro, oppure vendere i titoli del Tesoro statunitensi in suo possesso, che rappresentano oltre il 5% del totale. Tuttavia, anche queste azioni avrebbero delle contropartite: sebbene provocherebbero una crisi profondissima per l’economia americana, non genererebbero entrate immediate per l’economia cinese. La vendita avverrebbe infatti a prezzi inferiori rispetto a quelli di acquisto, e priverebbe Pechino dell’arma più letale a sua disposizione nello scontro con Washington. Sarebbe invece utile in altri scenari, incluso quello di Taiwan.

Il ruolo globale di Pechino, sostenuto da Mosca e da tutti i Paesi che ora vedono negli Stati Uniti il problema e non la soluzione, trasforma lo scontro USA-Cina in un conflitto sistemico; non su concetti economici, ma su modelli. Come sottolinea Atilio Boron su Página/12, gli Stati Uniti laureano ogni anno 197.000 studenti in informatica e ingegneria. La Cina, 1.380.000. Si avanza verso una disamericanizzazione del mondo.

A Pechino regna una calma vigile. Tutto il rumore serve ad attaccare la Cina, ma si ricorda che la Cina esiste da 5.000 anni, mentre gli Stati Uniti da 250. Qualcosa vorrà pur dire, no?

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