Un grossolano errore commesso durante una discussione interna sulla recente aggressione militare americana contro lo Yemen potrebbe costare il posto al consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Mike Waltz, attorno al quale sembra giocarsi anche il confronto tra falchi “neo-con” e “isolazionisti” dentro l’amministrazione di Donald Trump. L’ex deputato della Florida aveva aggiunto per sbaglio un giornalista del magazine The Atlantic a una chat di Signal tra esponenti di primissimo piano del governo di Washington dedicata alla discussione dei dettagli e delle implicazioni del bombardamento nel paese della penisola arabica, poi effettivamente avvenuto di lì a pochi giorni. La vicenda ha scatenato una feroce polemica sui giornali ufficiali e tra gli oppositori di Trump, ma, com’era prevedibile, nessuno di coloro che hanno attaccato la Casa Bianca ha ritenuto opportuno sollevare la questione cruciale, ovvero la totale illegalità di un’azione che ha di fatto riaperto il fronte di guerra yemenita.

Il giornalista americano Jeffrey Goldberg ha scritto un lungo articolo sul suo giornale per raccontare di come, con sua enorme sorpresa, fosse finito in una discussione contenente informazioni critiche su un’operazione militare all’estero in fase di preparazione. Ad aggiungerlo era stato appunto Mike Waltz. Al centro dello scandalo, sia nella “rivelazione” di Goldberg sia nei commenti di praticamente tutti i media “mainstream”, c’è la macroscopica incompetenza del consigliere di Trump e di tutta la sua amministrazione, non nuova a questo genere di gaffe nonostante il breve periodo trascorso dall’inizio del mandato.

Una “esclusiva” della testata on-line Politico ha spiegato come Waltz rischi ora di essere licenziato o costretto alle dimissioni. Tutto dipenderà dalle valutazioni di Trump circa le conseguenze che il caso potrebbe avere per la credibilità del suo governo. Il presidente ha spiegato martedì che ad aggiungere Goldberg alla chat sarebbe stato un membro del suo staff, ma che comunque l’errore non avrebbe avuto alcun impatto sull’operazione militare. Tanto per lasciare pochi dubbi sull’aria che tira, una fonte di Politico “vicina alla Casa Bianca” ha affermato che “tutti alla Casa Bianca sono d’accordo su una cosa: Mike Waltz è un fo***to idiota”. Quest’ultimo è ritenuto un rappresentante della fazione “neo-con” dell’apparato di potere americano e la polemica in cui è coinvolto in questi giorni potrebbe fornire l’occasione ai suoi rivali trumpiani – o repubblicani “MAGA” – per metterlo alla porta e accentuare le inclinazioni nazionaliste della nuova amministrazione.

Le responsabilità di Waltz, con o senza il coinvolgimento del membro del suo staff, consistono nel non avere controllato l’elenco dei contatti aggiunti alla chat e, per quanto riguarda quelle di tutta l’amministrazione, il fatto stesso che una conversazione su un argomento così delicato fosse avvenuta sull’app privata di messaggistica Signal. Oltre a Waltz (e Goldberg), a condividere messaggi c’erano, tra gli altri, il vice-presidente J.D. Vance, il segretario alla Difesa Pete Hegseth, il futuro direttore del Centro Nazionale per l’Antiterrorismo Joe Kent e la direttrice dell’Intelligence Nazionale Tulsi Gabbard.

Le questioni di segretezza e possibili fughe di notizie sono sempre più oggetto di preoccupazione per la classe dirigente americana, in maniera direttamente proporzionale al carattere illegale, se non apertamente criminale, delle azioni intraprese. Quando perciò si verificano situazioni simili, quello che accade puntualmente è la promozione di una polemica coordinata e pervasiva, allo scopo non solo di distribuire qualche colpo sul piano politico o di regolare i conti nel quadro di rivalità interne, ma anche e soprattutto di occultare le questioni più importanti portate alla luce dalla notizia in questione. Si tratta dello stesso meccanismo, per citare alcuni dei precedenti più clamorosi, a cui si è assistito con le informazioni rese pubbliche anni fa da Julian Assange o Edward Snowden, accolte, quanto meno sulla stampa ufficiale e dai politici, dall’indignazione più per le falle informatiche dentro le agenzie governative che per il contenuto esplosivo delle rivelazioni stesse.

Vista la conferma da parte della Casa Bianca dell’autenticità dei messaggi scambiati in chat e la rarità di informazioni pubbliche al netto della retorica ufficiale, vale la pena soffermarsi su alcuni passaggi. Tra i più citati dalla stampa americana sono i messaggi del vice-presidente Vance, il quale esprimeva più di un dubbio sull’opportunità di procedere con il lancio di missili sul territorio controllato dal governo di Ansarallah (“Houthis”). I suoi scrupoli non erano evidentemente collegati al rischio di colpire alla cieca, quindi di fare una strage di civili come poi è di fatto avvenuto, né alla violazione del diritto internazionale o della stessa Costituzione americana.

Le bombe sarebbero infatti cadute sullo Yemen, a partire dal 15 marzo, senza che Ansarallah avesse lanciato un solo missile contro obiettivi americani o israeliani. I leader yemeniti avevano soltanto annunciato la ripresa della campagna militare contro imbarcazioni israeliane nel Mar Rosso in seguito all’affondamento della tregua da parte del regime di Netanyahu a Gaza e l’intensificazione del genocidio palestinese. Inoltre, quella che è a tutti gli effetti una guerra, è stata scatenata per l’ennesima volta da un presidente americano senza che siano avvenuti attacchi contro gli Stati Uniti e in assenza di un’autorizzazione del Congresso.

Vance, piuttosto, riconduceva le sue perplessità, definendo esplicitamente un “errore” la decisione di bombardare lo Yemen, allo scontro in atto tra gli USA e l’Europa. Vale a dire che il vice di Trump riteneva che l’operazione avrebbe finito per favorire l’Europa che, a differenza del suo paese, vede passare attraverso il canale di Suez una percentuale molto consistente dei propri traffici commerciali. Vance dava chiaramente per scontato che i missili sullo Yemen avrebbero ottenuto lo scopo di far desistere Ansarallah dal mettere in pericolo le rotte navali nel Mar Rosso.

Per Vance c’era anche il problema che l’opinione pubblica americana non avrebbe capito l’operazione, mentre riconosceva il rischio di una impennata “da moderata a seria” del prezzo del petrolio. Tutt’al più, concludeva il vice-presidente, poteva essere opportuno ritardare l’operazione di un mese. A quest’ultima ipotesi aveva risposto il candidato alla guida del Centro Nazionale per l’Antiterrorismo, Joe Kent, il quale spiegava che l’amministrazione avrebbe avuto le stesse “opzioni” anche dopo un mese. Il numero uno del Pentagono, Pete Hegseth, mostrava invece di comprendere le preoccupazioni di Vance, in particolare riguardo al fatto che gli americani in larga misura nemmeno sanno chi sono gli “Houthis”, con cui Trump stava per provocare una guerra.

Hegseth, perciò, invitava a spostare il dibattito pubblico relativo all’attacco contro lo Yemen sul fallimento in questo ambito dell’amministrazione Biden e sul fatto che Ansarallah sia, a detta di Washington, un semplice “proxy” dell’Iran. Sempre Hegseth sosteneva che il punto della questione doveva essere il ristabilimento della “libertà di navigazione” nel Mar Rosso e del “deterrente” militare nei confronti delle forze armate yemenite, che era venuto meno con la gestione dell’amministrazione Biden. Anche Mike Waltz riteneva che questo fosse l’aspetto decisivo dell’operazione e, rispondendo all’interrogativo di Vance riguardo i benefici per l’Europa, confidava di potere trovare un meccanismo per far gravare sugli alleati del vecchio continente il costo dell’iniziativa per garantire il regolare traffico marittimo da e per il canale di Suez.

Visti i precedenti disastrosi delle operazioni militari inaugurate oltre un anno fa da Biden in Yemen, è a dir poco sbalorditivo che i membri più influenti dell’amministrazione Trump abbiano preparato un nuovo attacco contro questo paese con la convinzione di potere ottenere risultati migliori. Come già anticipato, anche se la chat resa parzialmente pubblica da The Atlantic non esaurisce evidentemente la discussione interna alla Casa Bianca sul bombardamento dello Yemen, nello scambio di messaggi non c’è nemmeno traccia di un minimo dubbio sulla legalità dell’operazione.

Ancora più assurdo è che non si sia toccata la vera ragione dell’iniziativa militare ordinata dopo pochi giorni da Trump, ovvero la difesa degli interessi di Israele. Il che, alla luce dei fatti di Gaza, corrisponde alla garanzia che il regime sionista possa continuare ad attuare la pulizia etnica palestinese nella striscia senza il disturbo dei missili lanciati dallo Yemen.

Per la cronaca, Ansarallah aveva deciso lo stop alle operazioni militari nel Mar Rosso e contro Israele dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco a Gaza il 19 gennaio scorso. In seguito alla ripresa dell’aggressione israeliana, i leader yemeniti avevano annunciato il ripristino degli attacchi contro gli interessi sionisti. Per tutta risposta, Trump ha ordinato il lancio preventivo di missili a partire dal 15 marzo. Solo nel primo blitz sono stati uccisi in Yemen oltre 50 civili, tra cui donne e bambini. Ansarallah ha risposto, tra l’altro, con attacchi contro la portaerei americana Harry Truman e l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.

Il ciclo di violenza difficilmente potrà essere fermato dai missili americani, anche per via delle informazioni di intelligence tradizionalmente inaffidabili sullo Yemen a disposizione di Washington. L’unica soluzione sarebbe lo stop al genocidio palestinese, ma Trump, così come Biden, preferisce continuare a facilitare i crimini sionisti, anche a rischio di scatenare un’altra guerra che potrebbe allargarsi a breve e con risultati disastrosi allo stesso Iran.

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