L’utilizzo della giustizia a scopi politici e la repressione somministrata ai propri rivali non è esattamente una novità per il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. L’incriminazione e l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, segnano però una netta accelerazione della strategia del leader del paese NATO, non a caso in un momento segnato dalla convergenza di una serie di dinamiche, ma anche di crisi, che lo hanno spinto a prendere iniziative audaci per prolungare la sua permanenza al potere e calibrare un certo riassestamento della posizione della Turchia nello scacchiere regionale.

L’attacco giudiziario a Imamoglu ha tutti i contorni di un’operazione attentamente preparata dal governo guidato da Erdogan e dal suo partito (AKP). Settimana scorsa, l’università di Istanbul aveva revocato la sua laurea ottenuta negli anni Novanta a seguito di una “indagine” su presunte irregolarità, già di dominio pubblico da mesi, nel trasferimento di Imamoglu a quest’ultimo istituto da uno di Cipro del Nord. Il possesso di un titolo di studio superiore è uno dei requisiti anti-democratici previsti dalla legge turca per candidarsi alla presidenza della repubblica e senza di esso Imamoglu sarebbe automaticamente escluso dalla competizione.

Com’è noto, Imamoglu era dato per favorito nelle elezioni presidenziali, la cui scadenza naturale sarebbe nel 2028 ma che in molti prevedono possano essere anticipate per permettere a Erdogan di candidarsi nuovamente. La costituzione turca prevede un massimo di due mandati di cinque anni ciascuno e Erdogan è in realtà già al terzo. Secondo la sua interpretazione, il primo non conterebbe perché iniziato prima della riforma costituzionale del 2017 che ha introdotto il sistema presidenziale in Turchia. Per candidarsi nuovamente, Erdogan dovrebbe ottenere una nuova modifica costituzionale, ma se non dovesse riuscire nel suo intento, è possibile che cerchi di aggirare nuovamente la legge indicendo elezioni anticipate, così da sostenere di avere il diritto a un altro mandato perché l’ultimo non è stato completato.

In ogni caso, Imamoglu era finito in stato di fermo con le accuse di corruzione e terrorismo, quest’ultima in relazione a legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Solo nella giornata di domenica è arrivata la ratifica dell’arresto e la sospensione di Imamoglu dal suo incarico di sindaco di Istanbul. Il giudice incaricato del caso ha formalizzato solo le accuse di corruzione, da collegare all’esistenza di una “rete criminale” che, tra l’altro, aggiustava appalti pubblici per ricavare vantaggi finanziari. Le accuse di terrorismo sono state invece per il momento messe da parte. Quest’ultimo particolare ha evitato la nomina di un sostituto alla carica di sindaco da parte del governo. A farlo, in via per ora temporanea, sarà nei prossimi giorni lo stesso consiglio comunale della metropoli sul Bosforo.

Assieme a Imamoglu sono stati arrestati e messi in stato d’accusa oltre 100 altri politici e funzionari del suo partito kemalista (Partito Popolare Repubblicano; CHP). Il sindaco del distretto di Sisli, parte della città metropolitana di Istanbul, è stato incriminato per terrorismo e rimpiazzato da un funzionario di nomina governativa. La vastità dell’operazione in corso serve anche ad assestare un colpo pesante al CHP dopo che nelle elezioni amministrative del 2019 e del 2024 aveva registrato netti successi a Istanbul, dove Erdogan era stato a sua volta sindaco a inizio carriera, costruendo una macchina di consenso cruciale per il successivo lancio a livello nazionale.

Imamoglu, come già accennato, è però anche una minaccia per l’attuale presidente, dopo che negli ultimi anni è diventato il leader più carismatico dell’opposizione, anche grazie al doppio successo a Istanbul nel 2019. In quell’occasione, una prima elezione, vinta sul candidato del AKP di Erdogan, era stata annullata per presunte irregolarità, ma la ripetizione qualche mese più tardi aveva confermato la vittoria di Imamoglu con un margine di oltre 800 mila voti.

L’operazione contro Imamoglu e il CHP ha subito provocato l’esplosione di manifestazioni oceaniche di protesta, non solo a Istanbul, ma anche nella capitale Ankara e in altre città turche nonostante i divieti imposti dalle autorità. A partire dall’esplosione del caso politico-giudiziario sono stati arrestati oltre 1.100 dimostranti e almeno 13 giornalisti. L’accesso a internet e ai social network è stato inoltre rallentato, mentre il caos generato dagli arresti ha dato un impulso straordinario alle primarie del CHP, che erano già previste per la giornata di domenica. A fronte di 1,7 milioni di iscritti, secondo fonti dello stesso partito, avrebbero partecipato al voto per la scelta del candidato alle prossime presidenziali in 15 milioni. Imamoglu ha ottenuto oltre 13 milioni di consensi.

La prossima mossa del governo potrebbe essere secondo alcuni la rimozione della leadership del CHP e il suo commissariamento in base a un’indagine su possibili irregolarità commesse durante un congresso tenuto a fine 2023. Il segretario del CHP, Ozgur Ozel, ha convocato un congresso straordinario del partito per il prossimo 6 aprile, con l’obiettivo di sventare questa minaccia. Molto dipenderà comunque dall’eventuale allargamento delle proteste di piazza e dalla risposta delle forze di polizia.

I rischi che Erdogan è sembrato volersi prendere con l’operazione ai danni di Imamoglu sono il sintomo della serietà della sfida rappresentata da quest’ultimo alla sua permanenza al potere in Turchia. Il dilemma per il presidente è che l’insistenza con la strategia della repressione, evidentemente valutata come l’unica a disposizione per liquidare il suo principale rivale politico, potrebbe avere l’effetto contrario a quello desiderato, radicalizzando l’opposizione e accelerando il “trend” di consensi osservato nelle elezioni generali del 2023 e in quelle locali dell’anno successivo.

L’arma principale di Erdogan, come già si sta vedendo in questi giorni, potrebbe essere quella di caratterizzare l’offensiva giudiziaria come una sorta di battaglia contro la corruzione e i privilegi delle élites collegate al CHP, effettivamente da sempre il partito della borghesia filo-occidentale turca. Le conseguenze dal caso Imamoglu rischiano tuttavia di saldarsi al malcontento generalizzato di questi anni per i fallimenti in ambito economico e di politica estera del governo di Erdogan e dell’AKP, così da segnare potenzialmente la fine politica del presidente dopo oltre due decenni di dominio quasi assoluto.

Il caso Imamoglu si inserisce ad ogni modo in un vortice di iniziative, alimentate a loro volta dai rapidi cambiamenti sul piano geopolitico nella regione mediorientale. Erdogan è nel pieno di un tentativo di finalizzare un meccanismo per chiudere il conflitto curdo. Recentemente, il leader in carcere del PKK, Abdullah Ocalan, ha lanciato un appello a deporre le armi e ad accettare le aperture diplomatiche del governo di Ankara. La strategia del presidente include in realtà anche il pugno di ferro, visto che nelle scorse settimane si sono registrati nuovamente arresti di esponenti e amministratori locali del partito filo-curdo DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli).

Secondo molti osservatori, il processo di pace servirebbe a Erdogan per arrivare a un accordo politico con quest’ultimo partito che preveda l’appoggio alla già ricordata riforma costituzionale per permettere al presidente di candidarsi a un altro mandato. È chiaro che gli sforzi in questo senso potrebbero essere vani se Erdogan dovesse poi perdere alle urne da Imamoglu, come suggeriscono i sondaggi. Soprattutto perché il sindaco di Istanbul ora in carcere ha già dimostrato di potere intercettare una fetta consistente del voto curdo.

L’arresto di Imamoglu è avvenuto inoltre subito dopo un colloquio telefonico tra Erdogan e Trump, con i resoconti da entrambe le parti che hanno evidenziato una forte sintonia tra i due leader. Sul tavolo ci sarebbe addirittura il possibile reintegro della Turchia nel progetto degli F-35, da cui Ankara era stata esclusa in seguito all’acquisto del sistema anti-aereo russo S-400. È possibile che la nuova amministrazione americana non abbia espresso opposizione al blitz giudiziario di questi giorni, collegando il piano che dovrebbe in teoria rafforzare Erdogan all’appoggio della Turchia alle mire di Washington nel quadro delle questioni più calde, dalla Siria all’Iran fino alla Palestina.

Erdogan, in definitiva, potrebbe avere intuito che i cambiamenti geopolitici di questi mesi nella regione e a livello globale stanno producendo scenari che gli consentono potenzialmente di rafforzare la propria posizione sul fronte domestico e non solo. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca, le prospettive di pace in Ucraina, attorno alle quali Erdogan cerca di proporsi come mediatore, e le possibili aperture di un’Unione Europea che si vede “tradita” dagli USA, sono tutti elementi che spingono il presidente turco a rilanciare le sue carte, come di consueto giocate su tutti i tavoli disponibili. In questo scenario, l’offensiva contro l’opposizione politica in Turchia prospetta uno scontro di portata storica per il futuro del paese euro-asiatico e di ciò che resta del suo edificio democratico.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy