La presidenza di Donald Trump sta segnando un punto di non ritorno nella storia degli Stati Uniti. Quello che, almeno a livello formale, un tempo era considerato il baluardo della democrazia occidentale si sta trasformando in un regime autoritario, dove il potere esecutivo agisce senza alcun controllo, calpestando diritti costituzionali e ordinamenti giudiziari. Gli episodi che hanno fatto esplodere anche pubblicamente la questione sono rappresentati dalla deportazione di massa di immigrati venezuelani e dalla persecuzione politica di attivisti pro-Palestina come Mahmoud Khalil, uno studente della Columbia University e residente legale negli USA, attualmente detenuto in Louisiana in attesa di espulsione.

La scorsa settimana, il giudice federale James Boasberg ha emesso un’ordinanza per bloccare la deportazione di oltre 250 venezuelani, accusati dal governo Trump di far parte della gang “Tren de Aragua”. Nonostante l’ordine del giudice, l’amministrazione ha fatto decollare due aerei diretti in El Salvador, ignorando platealmente la magistratura. Un terzo aereo è partito dopo l’ordinanza, in piena violazione della legge. Nel paese centro-americano, i migranti espulsi dagli USA, senza essere passati da un equo procedimento legale, saranno detenuti indefinitamente in veri e propri lager.

L'amministrazione Trump ha giustificato queste azioni invocando l’Alien Enemies Act del 1798, una legge risalente alla Guerra d’Indipendenza che consente al presidente di deportare stranieri considerati “nemici” in tempo di guerra. Peccato che gli Stati Uniti non siano formalmente in guerra con il Venezuela. Come ha sottolineato il giudice Boasberg, questa legge è stata utilizzata solo tre volte nella storia americana, durante la Guerra del 1812 e le due Guerre Mondiali. L’ultima volta fu per giustificare l’internamento di cittadini giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, una pagina oscura della storia USA.

Il governo venezuelano ha condannato l’uso di questa legge, definendola “evocativa degli episodi più bui della storia umana, dalla schiavitù agli orrori dei campi di concentramento nazisti”. Tuttavia, per Trump e i suoi alleati, come il presidente salvadoregno Nayib Bukele, queste deportazioni sono invece un successo. Bukele ha persino twittato con sarcasmo: “Ops… Troppo tardi”, riferendosi all’ordinanza del giudice Boasberg.

La sfida alla magistratura non si è fermata qui. Dopo l’ordinanza di Boasberg, l’amministrazione Trump ha continuato a deportare i venezuelani, sostenendo che il giudice non avesse autorità per intervenire su questioni di “sicurezza nazionale”. Tom Homan, responsabile delle politiche migratorie della Casa Bianca, ha dichiarato senza mezzi termini: “Non ci fermeremo, non ci importa cosa pensano i giudici o la sinistra”.

Anche Stephen Miller, il consigliere fascista di Trump, ha attaccato Boasberg, definendo la sua ordinanza “la più illegale mai emessa da un giudice nella nostra epoca”. Miller ha sostenuto che il presidente ha il potere assoluto di agire in materia di sicurezza nazionale, senza alcun controllo giudiziario. Questa posizione è stata ribadita in un ricorso presentato al Circuito di Appello di Washington, dove il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la rimozione di Boasberg dal caso, sostenendo che il giudice stesse cercando di esercitare un controllo eccessivo sulle operazioni del governo.

La risposta dei sostenitori di ultra-destra del presidente è stata ancora più aggressiva. Diversi repubblicani, tra cui il miliardario Elon Musk, hanno chiesto l’impeachment di Boasberg. Musk, che ricopre un ruolo chiave nell’amministrazione Trump come responsabile dei tagli ai programmi sociali, ha twittato: “È ora di rimuovere i giudici che ostacolano la sicurezza nazionale.” Queste minacce non sono solo retorica: rappresentano un attacco diretto all’indipendenza della magistratura, uno dei pilastri della democrazia formale americana.

Parallelamente alle deportazioni di massa, l’amministrazione Trump sta perseguendo una repressione sistematica del dissenso. Mahmoud Khalil, studente palestinese e residente legale negli USA, è stato arrestato l’8 marzo senza accuse formali. Il suo “reato”? Aver guidato le proteste studentesche alla Columbia University di New York contro il genocidio palestinese a Gaza. Khalil non è stato accusato formalmente di nessun crimine, ma è stato comunque imprigionato in un centro di detenzione della polizia di frontiere americana (ICE) in Louisiana, a oltre 2.000 chilometri dalla moglie, incinta di otto mesi e mezzo.

Il caso di Khalil è emblematico della criminalizzazione della libertà di espressione. Come ha dichiarato quest’ultimo in una dichiarazione da poco rilasciata, “La mia detenzione ingiusta è indicativa del razzismo anti-palestinese che le amministrazioni Biden e Trump hanno dimostrato negli ultimi 16 mesi”. Khalil ha anche avvertito che i tentativi di imprigionarlo e deportarlo minacciano le libertà civili fondamentali di tutti.

Nonostante un’ordinanza del giudice Jesse Furman, che blocca temporaneamente la deportazione di Khalil, il governo Trump sta cercando di spostare il caso in Louisiana, dove la Corte d’Appello del Quinto Circuito – notoriamente conservatrice – potrebbe favorirne l’espulsione. Come ha osservato Steve Vladeck, professore di diritto alla Georgetown University, “Il Quinto Circuito è il tribunale in cui gli immigrati hanno storicamente meno possibilità di successo”.

Quello che sta accadendo sotto Trump non è un’anomalia, ma il culmine di un processo iniziato decenni fa. La stampa ufficiale negli USA sta iniziando a discutere apertamente della deriva dittatoriale che caratterizza queste prime fasi del secondo mandato di Trump. Tuttavia, la questione viene trattata senza contesto, come se il problema fosse la personalità e le inclinazioni autoritarie del presidente, mentre si tratta del compimento di un processo di deterioramento dei meccanismi e delle garanzie costituzionali democratiche che parte da lontano.

Dopo il furto delle elezioni del 2000, quando la Corte Suprema intervenne per consegnare la presidenza a George W. Bush, il rispetto anche esteriore dei diritti democratici è stato progressivamente abbandonato negli Stati Uniti. L’11 settembre 2001 ha poi fornito il pretesto per lanciare la Guerra al Terrore, con la conseguente sospensione delle libertà civili e l’istituzione di centri di tortura come Guantanamo. Obama ha continuato su questa strada, rivendicando il potere di assassinare cittadini americani senza processo.

Anche Joe Biden ha contribuito a questa deriva. Durante la sua presidenza, ha mantenuto intatte molte delle politiche autoritarie di Trump, come la detenzione di migranti ai confini, mentre ha sostenuto strenuamente il regime sionista di Netanyahu nello sterminio della popolazione palestinese. Inoltre, l’opposizione del Partito Democratico si limita a implorare l’amministrazione Trump per ripensare le proprie politiche, mentre dall’altro lato le asseconda, come dimostra la recente approvazione del bilancio provvisorio scritto dai repubblicani che, di fatto, facilita la repressione interna e le deportazioni di massa per i prossimi mesi.

La situazione è quindi molto seria. Trump non minaccia soltanto di instaurare una dittatura, ma lo sta facendo concretamente con iniziative che nessun presidente nella storia americana aveva mai preso, ad esclusione di lui stesso soprattutto nella fase finale del suo primo mandato. Il caso di Khalil e le deportazioni di massa minacciano di essere solo l’inizio. Se non ci sarà una mobilitazione popolare svincolata dai partiti di “sistema” per difendere i diritti democratici, gli Stati Uniti rischiano di diventare un regime anche formalmente autoritario, dove la libertà di parola e il diritto al dissenso saranno un lontano ricordo.

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