L’amministrazione Trump ha dato il via a una nuova escalation nella guerra commerciale globale, implementando dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio che graveranno non solo sui tradizionali rivali economici, ma anche su storici alleati come l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia. La posta in gioco è enorme: nel 2023, gli scambi commerciali soltanto tra USA e UE hanno raggiunto un valore complessivo di 1.600 miliardi di euro, con un surplus commerciale europeo pari a 155,8 miliardi di euro per le merci, bilanciato solo parzialmente da un deficit di 104 miliardi nel settore dei servizi. Questo confronto, tutt’altro che circoscritto, rischia di destabilizzare ulteriormente l’economia e gli equilibri geopolitici globali.

La situazione commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea si sta rapidamente deteriorando, con il rischio di un’ulteriore escalation di misure protezionistiche. In risposta ai dazi del 25% imposti dall’amministrazione Trump su acciaio e alluminio, l’UE ha annunciato, a partire dal prossimo mese di aprile, tariffe del 50% su prodotti americani, tra cui whisky e motociclette Harley-Davidson. Per tutta risposta, giovedì il presidente Trump ha minacciato, tramite il suo social network Truth, di applicare dazi del 200% su vini, champagne e altri alcolici europei se l'Unione non ritirerà le sue misure.  Questa spirale di ritorsioni potrebbe avere gravi conseguenze economiche su entrambe le sponde dell'Atlantico, colpendo settori chiave e aumentando le tensioni tra alleati storici.

Nelle ultime settimane, le tensioni commerciali erano aumentate anche tra gli Stati Uniti e altri loro partner, come Canada e Messico. Il primo febbraio, Trump ha firmato ordini esecutivi che impongono dazi del 25% su tutti i beni provenienti dai due paesi confinanti con gli USA, oltre a un ulteriore 10% su quelli cinesi, con un'aliquota ridotta al 10% per le esportazioni energetiche canadesi, tra cui elettricità, gas naturale e petrolio. Dopo una sospensione temporanea di un mese, i dazi sono entrati in vigore il 4 marzo, con un aumento al 20% per le merci cinesi. In risposta, la Cina ha imposto dazi del 15% su prodotti agricoli statunitensi come pollo, grano, mais e cotone.

In Canada, il premier della provincia dell’Ontario, Doug Ford, aveva inizialmente proposto una tassa del 25% sull'elettricità esportata verso tre stati americani come misura di ritorsione. Tuttavia, dopo che Trump ha minacciato di raddoppiare i dazi su acciaio e alluminio canadesi, Ford ha ritirato la proposta per evitare una spirale del conflitto commerciale.  Nonostante ciò, le tensioni rimangono elevate, con il presidente Trump che ha definito il Canada un “abusatore di dazi” e ha annunciato l'intenzione di recuperare le perdite attraverso misure tariffarie aggiuntive. Questi sviluppi indicano una crescente incertezza nelle relazioni commerciali nordamericane, con potenziali ripercussioni sulle economie regionali.

La determinazione del presidente repubblicano nell’utilizzare dazi e tariffe doganali come armi per ridisegnare i rapporti commerciali globali appare più ferma che mai, con un atteggiamento che non ha concesso esenzioni né ripensamenti, a differenza di quanto accaduto in precedenti occasioni. Questa fermezza è emersa nonostante gli accorati appelli di settori strategici del business statunitense, che hanno avvertito del potenziale impatto negativo sull’economia americana, stimando una perdita significativa di posti di lavoro e un aumento dei costi per i consumatori. Trump ha giustificato la sua posizione ribadendo il pericolo rappresentato dalla Cina. A suo dire, infatti, eventuali eccezioni alle misure tariffarie aprirebbero spiragli di mercato in cui potrebbe inserirsi Pechino e indebolirebbero la capacità degli Stati Uniti di contrastare quello che definisce un “nemico economico sistemico”.

Le politiche daziarie di Trump hanno implicazioni geopolitiche di vasta portata e scuotono le fondamenta stesse dell’ordine internazionale costruito intorno all’alleanza tra Stati Uniti, Europa e partner storici in Asia e Oceania. Le conseguenze dell’atteggiamento protezionistico dell’amministrazione statunitense non si limita alle questioni economiche, ma colpisce direttamente il tessuto delle relazioni politiche e strategiche tra gli alleati. Un caso emblematico è rappresentato dall’Australia, che, nonostante i forti legami storici e l’appartenenza alla rete di sicurezza condivisa con gli Stati Uniti, ha visto respingere la propria richiesta di esenzione dai dazi su acciaio e alluminio.

Questa decisione ha scatenato malumori a Canberra e ha portato a una riflessione profonda sulla solidità e il futuro dell’alleanza con gli USA, uno dei pilastri dell’architettura della “sicurezza” indo-pacifica. Le ripercussioni politiche si stanno estendendo anche ad altre aree: l’irrigidimento americano sta spingendo molti alleati a interrogarsi sulla sostenibilità di un ordine internazionale in cui gli Stati Uniti sembrano sempre più disposti a sacrificare rapporti strategici consolidati in nome di interessi economici immediati. Basti pensare all’Europa e al piano di riarmo in discussione proprio in questi giorni. Questo clima di tensione potrebbe favorire la nascita di nuove dinamiche geopolitiche, potenzialmente capaci di ridisegnare equilibri che fino a pochi anni fa sembravano immutabili.

Le recenti politiche tariffarie dell'amministrazione Trump, come già anticipato, stanno avendo un impatto significativo sull'economia statunitense e globale. L'introduzione di dazi su importazioni da Messico, Canada e Cina ha innescato una serie di ritorsioni commerciali, aumentando l'incertezza sui mercati finanziari e pesanti perdite già materializzatesi, come dimostrano i passivi degli indici di Wall Street in questo inizio anno. Inoltre, il valore del dollaro è diminuito, toccando il livello più basso degli ultimi cinque mesi.

La situazione è ulteriormente aggravata dalle iniziative di Elon Musk, CEO di Tesla e leader informale del cosiddetto Dipartimento dell'Efficienza Governativa (DOGE), che ha annunciato licenziamenti di massa nel settore pubblico, contribuendo anch’esso al clima di incertezza economica. Di fronte a questi sviluppi, il presidente Trump ha riconosciuto la possibilità di una recessione, descrivendo la situazione come un "periodo di transizione" necessario per l'attuazione delle sue politiche economiche.

Uno dei motivi dietro l’insistenza di Trump sulle politiche tariffarie, nonostante i rischi per l’economia e i consumatori statunitensi, risiede nella strategia di provocare una recessione controllata al fine di indurre la Federal Reserve a ridurre i tassi di interesse. Un abbassamento dei tassi stimolerebbe l’economia, rendendo il debito pubblico USA più gestibile e favorendo gli speculatori di Wall Street, che potrebbero trarre vantaggio da un contesto di liquidità più elevata. Infatti, Trump aveva promesso pubblicamente di perseguire un taglio dei tassi, sottolineando i benefici di lungo termine per l’economia statunitense, anche se ciò comporta un periodo di turbolenze economiche iniziali.

Le politiche commerciali di Trump presentano quindi rischi non indifferenti per l’economia globale, con potenziali effetti destabilizzanti sia sui mercati finanziari sia sulle relazioni geopolitiche. L’ostinazione del presidente nel perseguire queste misure evidenzia la sua determinazione a ristrutturare le relazioni internazionali secondo la dottrina “America First”, anche a costo di incrinare storiche alleanze e minare l’ordine mondiale consolidato. Questo approccio non solo intensifica le tensioni con i partner commerciali, ma sembra preparare il terreno per una possibile futura guerra economica e strategica con la Cina, vista come il principale rivale degli Stati Uniti nella competizione globale.

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